Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
GLORIA!
Sotto il nume tutelare di Sofia Coppola e del cantautorato indipendente, Margherita Vicario inventa un racconto curioso e gustosamente anacronistico (in tutti i sensi). Mescolando contro-storia femminista e cabaret nazionale (Elio, Paolo Rossi), il Sister Act ottocentesco ha quanto meno il merito di non somigliare a nulla della nostra produzione, anticipando pop e jazz novecenteschi di un secolo, senza preoccuparsi di invenzioni melodiche “così, di botto, senza senso”. Rimane il problema di un cinema che, almeno in Italia, non sembra avere un pubblico (cosa non da poco), ma come esordio – pieno di ingenuità e non sequitur – va classificato come virtuoso.
IL MIO AMICO ROBOT
Benedetta bidimensionalità: ormai l’animazione semplice con tratti netti e sereni sta diventando un antidoto al “troppo pieno” di area Illumination. La vicenda di solitudine quasi lancinante, di surrogati affettivi, di soggettività artificiali, di coppie che non reggono lo scorrere del tempo, di queerness più riuscita di qualsiasi diversity da multinazionale, di accettazione della fine dei rapporti e di non-esclusività reciproca, di seconde occasioni e di relatività del corpo, beh, amplia la pedagogia del cartoon in maniera quasi commovente. Le citazioni (splendida quella di Lebowski, per creatività) sono la ciliegina.
ZAMORA
Un tempo si invocava in Italia il “cinema medio”. I cinefili s’incacchiavano ma tutti gli altri cercavano una terza via tra film “grand public” e radicalismi stile Alice Rohrwacher. Ecco, Zamora è questa roba qui: una sceneggiatura esatta, con caratteri quasi tutti riusciti, con una convenzionalità storica di messinscena solidissima, un ricorso intelligente al passato socio-antropologico del nord, e un elastico delicato teso tra Olmi, Avati e persino Fantozzi. E a ben pensarci, la stessa cosa si potrebbe dire dell’intera attività di Marcorè, ecletticamente in bilico tra satira deformante e tenerezza malincomica, qui eletta a regola aurea.
OMEN
Visto in una sala nella quale, quando compare la foto di Gregory Peck, uno spettatore ha esclamato “e chi c…o è?”. E in effetti, il patetico tentativo di collegare il prequel a un film che al massimo pochi nostalgici potrebbero considerare un cult la dice lunga sull’ossessione per le IP dell’horror mainstream. Certo, siamo lontani dagli abissi di spazzatura del nuovo Esorcista di Green, ma non è che le emozioni “nunsploitation” di questi nuovi/vecchi presagi siano particolarmente inquietanti. Felici di ritrovare Nell Tiger Free col suo sguardo febbrile e la sessualità problematica in pieno continuity casting, ma non ci basta.
E LA FESTA CONTINUA!
Ci vorrebbe uno come Mengele per voler male a Robert Guédiguian. A ogni film scioglie il sangue di San Gennaro della sua Marsiglia, che ha tutto il mediterraneo socialista dentro di sé. E mentre nella realtà assistiamo con le mani nei capelli alla lenta ma inesorabile agonia della sinistra europea, i suoi film estraggono storie utopiche dove le persone riescono ancora a mettersi insieme per fare qualcosa di buono, tra un bicchiere di vino della casa e una lista elettorale. In tutta sincerità, preferiamo l’autore quando va fino in fondo al sentimento della perdita (La casa sul mare, il suo migliore tra gli ultimi), ma quando vediamo Ascaride e Darroussin innamorati al suono delle note di Aznavour perché dovremmo ribellarci a questo cinema del tramonto felice?
I DELINQUENTI
Non proviene direttamente dal Pampero Cine, questo strano oggetto di Rodrigo Moreno, ma dialoga comunque con Laura Citarella e Mariano Llinás, senza nascondersi troppo – anche grazie alla presenza di Laura Paredes. Qui, con un remake stravolto e collassato a tre ore di Apenas un delincuente di Hugo Fregonese (1949), si mettono in atto le dilatazioni che abbiamo imparato a conoscere in questa vague argentina: derive lente, spirali del caso, umanissime aspirazioni che sbattono contro l’imprevedibilità del reale (o contro i propri limiti). E soprattutto la sensazione che esista ancora il concetto di destino, purché si sia disposti a cambiare se stessi, financo a gettare all’aria tutto (compreso il racconto cinematografico con le sue regole).