Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
MACBETH
C’era molta curiosità per il primo film di Joel Coen senza il fratello, e molta sorpresa per la trasposizione shakespeariana lontana dalla letteratura suburbana dei due autori. Sarebbe sciocco considerare l’esangue involuzione di questo Macbeth come un problema di dimezzamento della creatività. Fatto sta che – per quante letture autoriali sottili si possano fare – l’universo Coen è qui irriconoscibile (ma non sarebbe di per sé un problema) e soprattutto deludente. Che cosa ci fa Joel Coen con una fotografia di Bruno Delbonnel che cita scolasticamente Welles, Dreyer e Bergman? Che cosa ci fa Denzel Washington, completamente fuori set, nei panni del re? Che interesse abbiamo per un’operazione testuale al tempo stesso esasperata, indie, low budget, offerta come astuto fiore all’occhiello cinefilo della piattaforma più in difficoltà di tutte (Apple Tv+)? Stranamente, il Macbeth anziano di Coen, con una Lady quanto mai indecifrabile e contraddittoria, manca di vera brama, e senza brama la tragedia non esiste, o viene semplicemente verbalizzata, come in questo caso. Shakespeare è una trappola ideologica prima che drammaturgica, perché interroga il cinema guardandolo dritto negli occhi a partire dal teatro. Di fronte al Macbeth non puoi mentire: o muori d’amore per lui o muori artisticamente decapitato.
THE TENDER BAR
“Il cinema medio ormai va su piattaforma” è una delle frasi più ricorrenti tra addetti al settore. Può essere, anche se poi bisogna intendersi sulla categoria. Ecco sicuramente The Tender Bar è cinema medio: un racconto malinconico e ironico, con una storia di vita particolare e al contempo universale, con un coming-of-age e alcuni attori importanti sullo sfondo, un rapporto simpatico con la letteratura americana e con la rappresentazione sociale, una struttura cronologicamente ricca ma non complicata, e nessuno che si fa male veramente. Certo, Clooney un tempo aveva altre ambizioni. Certo, la cinefilia potrebbe distruggere il film e preferirgliene un altro simile ma più rozzo e vivo (Elegia americana di Ron Howard). Tutto vero ma alla fine The Tender Bar mantiene quel che promette e non è ben chiaro perché gli si dovrebbe chiedere di più. Un giorno capiremo che le nostre aspettative sul cinema in streaming vano ricalibrate dal punto di vista antropologico.
WHAT DO WE SEE WHEN WE LOOK AT THE SKY?
MUBI prosegue nel suo scavo del cinema d’autore non distribuito (e nel frattempo sta costruendo una library d’essai molto ricca: le ambizioni si sono alzate). Quello di Alexandre Koberidze, georgiano, è un film che parla la lingua del cinema internazionale da festival e mescola fiaba, attitudine documentaria, racconto surreale, idioletto locale e straniamento beffardo. Si tratta del colpo di fulmine tra due sconosciuti che per magia cambiano aspetto e non si riconoscono più, inseguendosi inconsapevoli per il resto del film. In mezzo succede tutto e niente, tra parodia rohmeriana e bizzarre escursioni calcistiche, musiche pop incoerenti e voce narrante testardamente monotona, digressioni di ogni tipo e gag stralunate. A essere pressapochisti, sentendo dire Georgia, il cinefilo affermerebbe subito che Ioseliani aleggia, ma in verità non è mica tanto vero. La fatica a descrivere quel che accade è anche un po’ la fatica di guardarlo: sembra che Koberidze insista a farci capire che è un film radicalmente leggero ma alla lunga sortisce un effetto un po’ estenuante. Senza nulla togliere al riconoscimento della libertà narrativa e poetica.
DOPESICK
A proposito di cinema che ormai va su piattaforma. Questa è una serie TV reperibile su Disney+ ma di fatto è una serializzazione del cinema di denuncia civile di cui The Post o Il caso Spotlight erano gli ultimi strenui difensori. La cosa interessante di Dopesick è che, raccontando di un orribile e cinico comportamento di un’azienda farmaceutica quasi dinastica nel commercializzare un oppioide pericolosissimo, sembra vellicare un po’ tutti i pubblici. Da una parte c’è il ricordo della Hollywood liberal dagli anni Sessanta fino a Erin Brockovich, ma dall’altra (bisogna ammetterlo) risuonano sinistre carezze verso la paranoia no vax e anti-Pharma. O siamo noi sì-vax che ci siamo ormai persi nel difendere la razionalità scientifica e vediamo dappertutto messaggi ambigui? Bella domanda. Comunque la serie, in parte diretta dal veterano Barry Levinson, è old style, solidissima, recitata da gente con le facce giuste (in particolare Michael Keaton e Rosario Dawson), e difficile da abbandonare una volta cominciata.
4 META’
Intendiamoci subito. Chi sta facendo film italiani per le piattaforme (Netflix in questo caso) sa dove sta andando. Questa innocua commedia sentimentale, dotata di uno sliding doors talmente annacquato da far sembrare la struttura di Supereroi di Genovese un mix tra Nolan e Resnais, ci potrebbe apparire un tappabuchi buttato lì senza convinzione. E invece è un film più visto di quello di Sorrentino, sia in Italia sia all’estero. D’altra parte pochi sanno che il titolo italiano più visto nel mondo nel 2021 è Yara di Marco Tullio Giordana, quasi ignorato dalla nostra critica. Quindi Alessio Federici e Cattleya hanno fatto bene i loro calcoli, visto che 4 metà ha già ottenuto 12 milioni di ore viste ed è presente nelle top ten di dieci Paesi, per la precisione (oltre all’Italia, in cui è terzo), Croazia, Grecia, Polonia, Portogallo, Repubblica Serba, Spagna, Argentina, Costa Rica e Uruguay (rubo i dati all’amico Robert Bernocchi su Screenweek). Come analizzare questo film se non in senso industriale? Occhio a Matilde Gioli (già nota per la fiction Doc) e Ilenia Pastorelli che potrebbero aver trovato un loro habitat divistico.