Al di là del Golden Globe a Russell Crowe, l’impressione è che The Loudest Voice sia stata un po’ sottovalutata dalla critica serialista. Prodotto da una vecchia volpe come Tom McCarthy e dall’ineffabile Jason Blum, diretto in alcuni episodi da Stephen Frears e dal soderberghiano Scott Z. Burns (lo stesso di The Report, di cui abbiamo parlato qui), è una classica buccia di banana estetica. Ovvero gli evidenti limiti di regia e scrittura – diciamo più di servizio che di ricerca in stile complex tv – hanno attutito l’impatto di una mini-serie che invece è pane per i denti di chi osserva senza l’ossessione di recensire.
Per esempio, è abbastanza scioccante – pur conoscendo il processo di decostruzione del proprio corpo divistico – vedere un sex symbol come Russell Crowe lasciarsi andare (tra peso personale e trucchi prostetici) a una dissoluzione fisica di questa portata. Non solo il suo protagonista è mostruoso, viscido, perverso e disonesto, ma anche colpito nelle funzioni fisiologiche, sempre più vorace e disgustoso, in un precipizio di perdita dell’autocontrollo che rappresenta al meglio il correlativo oggettivo del potere maschile. Tanto più è laido lui, tanto meno gli importa di piacere alle bellissime donne che molesta. Gli basta il ruolo gerarchico.
Bisognerebbe riflettere in termini di celebrità e di ageing per Russell Crowe. Mi sono persino chiesto se, con gli standard del body shaming che abbiamo oggi, le continue ironie sul suo peso e le fotografie virali scambiate ovunque per schernire il suo ingrassamento non siano un elemento contestuale implicito della sua interpretazione di Roger Ailes. Da una parte iper-mimetica, dall’altra meta-divistica. Con il risultato di sortire una riflessione sul corpo affaticato della star che dipinge un personaggio il cui corpo sovrabbondante è elemento centrale nell’esercizio del suo potere simbolico.
Secondo dato di interesse: la storia della Fox. Probabilmente in Usa questa vicenda è ben nota, e sono noti anche i conduttori e i giornalisti in scena. Per noi, che abbiamo un’idea di massima ma non troppo approfondita del ruolo di Fox News per la destra americana, una serie del genere è molto istruttiva per le evidenti assonanze con quel che succede in Italia e sorprende per la potenza della televisione statunitense pur in epoca di media digitali (che qui sembrano ben poco importanti: e dire che la storia si svolge principalmente tra 2001 e 2016).
Infine, un pensiero più contestuale. C’è un filo rosso che unisce la celebrità e la politica, i media e il potere, il neoliberismo editoriale e le concentrazioni di ricchezza. Anche se continuiamo a pensare che Soderbergh sia l’unico a cercare cocciutamente una rappresentazione del denaro in epoca di mercati virtuali, le produzioni di Adam McKay, le serie come The Loudest Voice, i film di Alex Gibney, il fitto documentarismo americano sulla crisi economica, le forme satiriche in stile Michael Moore e altro ancora stanno costituendo un progetto linguistico di sicuro interesse.
Magari il cinefilo “schifa” questo stile fatto di montaggi sincopati, linguaggi televisivi innestati nel cinema (e viceversa), make up pesantissimi per alludere a personaggi mediatici ancora in vita o appena morti, con una distanza minima tra repertorio youtube e riscrittura finzionale. Eppure, la scrittura (in senso lato) del presente passa anche da qui, e con molti più nodi teorici di quanto non sembri a una prima visione.