Visioni Riflessioni Passioni

EROI RIDICOLI AI CONFINI DEL MITO in bruno bozzetto

Continuiamo la ri-pubblicazione di miei saggi e articoli ormai fuori catalogo. Oggi tocca a un testo che scrissi per Giannalberto Bendazzi e Raffaele De Berti (che ringrazio), La fabbrica dell’animazione. Bruno Bozzetto nell’industria culturale italiana, Milano, Il Castoro, 2003. Il titolo è quello che vedete qui sopra e il sottotitolo West & Soda e Vip mio fratello superuomo tra generi e parodia.

Nella folta produzione di Bruno Bozzetto, i primi due lungometraggi costituiscono senza dubbio – insieme alla serie del Sig. Rossi – il lato più conosciuto e condiviso della sua opera. La distribuzione nelle sale di prima visione, il recupero costante nella matinées per le scuole, l’interesse della televisione hanno infatti investito le pellicole di luce particolare, forse a scapito delle creazioni più rapide e, per durata, effimere.

Tuttavia, chi pensa che il discorso critico sui due film sia esaurito, incorre in un errore. West & Soda e Vip mio fratello superuomo rappresentano infatti un cinema d’animazione spiccatamente innovativo, specie per il fatto di costruire la propria originalità attraverso complessi rapporti intertestuali con gli altri modelli di animazione (da Walt Disney al Carosello) e grazie al ricorso ad una sistematica sollecitazione dell’enciclopedia spettatoriale per via dell’elemento parodistico.

Ma andiamo con ordine. West & Soda reca come data di uscita il 1965. Il film – vale la pena ricordarlo brevemente – racconta di Clementina, giovane proprietaria di una casetta nella prateria piena di animali e di un piccolo appezzamento di terreno tutto verde, e delle sue disavventure con il latifondista che vuole espropriarla dei suoi possedimenti. Dapprima, il cosiddetto “Cattivissimo” cerca di convincerla con le buone, offrendole di sposarla e di farla vivere agiatamente. La donna, cui ripugna la prepotenza dell’uomo, rifiuta. Intervengono allora gli sgherri del proprietario terriero, Ursus e Slim, temuti da tutto il paesino del west dalle poche anime. Le minacce e le distruzioni si susseguono fino all’arrivo di Johnny, pistolero dai ricordi ossessivi e intenzionato a praticare la non violenza. Visto che Clementina se ne innamora, il Cattivissimo escogita un piano secondo grazie al quale Johnny viene apparentemente sedotto dalla sciantosa del saloon. Clementina, gelosa, lo manda via da casa propria ma continua a rifiutare il ricco ammiratore: i due bravi le incendiano la fattoria, scatenando questa volta la vendetta di Johnny che, ripresi i “ferri del mestiere”, fa fuori i nemici uno dopo l’altro.

Anche solo scorrendo la trama, ci si può rendere conto di come Bozzetto percorra i loci communes del western e ne faccia lo scheletro narrativo tipologico nel quale innestare la dimensione comica e il lavoro di ripensamento infantile dell’epica del selvaggio Ovest. Tuttavia, il dialogo con le forme del western assume più aspetti, alcuni di stampo macrostrutturale (per dirla alla Genette, di “archigenere”[i]), altri meglio individuabili nelle occorrenze contemporanee al genere di riferimento. Già Renato Candia, all’interno del suo ricco saggio su Bruno Bozzetto[ii], procede all’analisi di West & Soda facendo riferimento a questi due aspetti. Riassumendo, egli sostiene che è necessario impostare il confronto con il cinema western senza dimenticare che si tratta di un’opera d’animazione, la quale procede perciò a un differente livello di «rivistazione del genere: l’evidenza dichiarata della figurazione fittizia costringe ad una riconsiderazione complessiva degli effetti simbolici che ognuno degli elementi messi in scena è capace di offrire»[iii]. Inoltre, Candia suddivide lo studio interpretativo di West & Soda in due categorie: 1) le componenti narrative e 2) le componenti storiche. Nel primo caso, trovano cittadinanza le invarianti di genere: la figura dell’eroe, lo spazio («esso non rinvia ad un ruolo nella storia che si narra bensì a tutti i ruoli possibili che lo spazio, nella tradizione del cinema western, ha ricoperto»[iv]), le opposizioni ideologiche; nel secondo caso, quello su cui maggiormente ci soffermeremo, Candia segnala giustamente come il prosciugamento delle azioni narrative corrisponda alla tendenza del western crepuscolare di quegli anni (ad esempio, l’arrivo e la partenza dell’eroe messianico), mentre i tormenti psicologici del protagonista rimandino ironicamente al cosiddetto western psicanalitico di Anthony Mann, George Stevens e Fred Zinnemann, senza dimenticare il western all’italiana.

Fermo restando l’alto valore analitico del saggio di Candia, che di fatto esaurisce buona parte delle riflessioni possibili sulla “lettera” intertestuale del film, bisogna a mio parere spostare, sia pure di poco, l’ottica con cui definiamo quest’opera. Come si diceva, vi è un atto comunicativo iniziale nei confronti del pubblico, utile a inaugurare un racconto che, fuor di dubbio, sarà di lì in poi una “parodia del western”. In questo senso, valgono come tali gli elementi di citazione – anche quelli diluiti e allusivi, come il nome Clementina da My Darling Clementine -, o il ricorso alle costanti del paesaggio. In fondo, la parodia del western è una delle pratiche più antiche del comico: oltre a film come Go West (Io…e la vacca, 1925) di Buster Keaton o Gianni e Pinotto tra i cowboys (Ride’em Cowboys, 1942) di Arthur Lubin, l’animazione stessa ha più volte affrontato l’argomento (si pensi a The Cactus Kid, 1930, cortometraggio Disney o a The Lone Stranger and Porky, 1939, della Warner Bros.). D’altra parte, seguendo questo schema, non possiamo dimenticare la data di uscita del film: 1965. Certo, come già spiegato, siamo in un’epoca di ripensamento forte del genere western anche in ambito americano[v], di psicologizzazione dell’eroe e al contempo di essenzializzazione dei gesti narrativi, quasi una riduzione “alle funzioni” degli avvenimenti. Questa seconda strada è intrapresa dal western all’italiana, che però – in più – aggiunge un delicato rapporto intertestuale con le fonti classiche e immerge il west falsificatorio e locale in una tradizione culturale di stampo goldoniano, con riferimenti alla commedia dell’arte, alla satira, al carnevalesco, e alle tradizioni funebri del sud Italia.

La letteratura critica sull’argomento è piuttosto scarsa, tuttavia è sufficiente per notare come Bruno Bozzetto – diciamo così – si “appoggi” all’aurorale lavoro di derivazione ironica del western da parte di Sergio Leone per costruire il suo West & Soda. In poche parole, la mia impressione è che il film di Bozzetto non sarebbe stato lo stesso se girato nel 1960 o 1963; sia chiaro, non significa che in quel caso l’opera dovesse sortire un risultato peggiore o migliore, ma solo che la componente stratificata e intertestuale di Per un pugno di dollari (1964) appare decisiva. Come sempre, bisogna guardare attentamente allo sviluppo delle correnti storiche: per il western italiano, la vicenda è particolarmente intricata. Fin dall’inizio degli anni Sessanta, infatti, si fa strada tra i vari filoni del cinema farsesco, forse in sostituzione del film-rivista, la parodia del western americano; film come I magnifici tre (1961) di Giorgio Simonelli con Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello e Walter Chiari, Due contro tutti (1962) di Alberto De Martino con Walter Chiari e Raimondo Vianello, Gli eroi del west (1963) di Steno con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello utilizzano il paesaggio ormai inconfondibile del west come una quinta televisiva, dando vita a un chiaro apparentamento con il varietà televisivo e il Carosello[vi].

In tutti questi film lo spazio è fortemente centripeto, lo scenario quasi di cartapesta, il west un luogo come un altro dove paracadutare i comici per godere dell’effetto di “incongruità” tra la dimensione epica del contesto e il ridicolo del soggetto. Solo nel 1964, però, interviene Sergio Leone, e non per primo nell’ambito europeo. Tuttavia, è certo il regista romano a ipostatizzare per sempre la forma dello spaghetti-western, sulla quale esistono molte interpretazioni. Chi scrive, ad esempio, è convinto che, sebbene attraversato da evidenti connotati ironici, i film di Leone affermino rispetto allo spettatore comune un primato dell’epica sul farsesco. Come a dire: il pubblico che ha decretato l’enorme successo di questi film lo ha “consumato”, se non come un western classico, come un western innovativo ma altrettanto eroico, con tanto di identificazione nei confronti di Clint Eastwood e di partecipazione ben più tradizionale che postmoderna alle vicende narrate. Appartiene invece alla storia interpretativa e critica dei film l’individuazione dell’anti-eroismo dei personaggi, della privazioni dei miti fondanti del classico americano, della dilatazione drammaturgica o della poetica degli straccioni e del carnevale. Comunque sia, Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, il brutto, il cattivo (1966) costituiscono un modello fondamentale. Ecco, dunque, giungere sulla scena Bozzetto, il cui West & Soda propone alcuni elementi leoniani e altri chiaramente parodistici. L’incipit del film, ad esempio, con la carrellata su uno scenario fatto di scheletri, rovi e il cowboy seduto sulla carcassa di un cavalo rimanda alla macabra poetica funeraria del western nostrano. In un saggio sul western all’italiana, del resto, Franco Ferrini inserisce tra le voci di un’ideale enciclopedia del western italiano anche il “cimitero”: «‘Voi che passate su questa collina isolata, fermatevi e pregate, non piangete per noi che abbiamo raggiunto così presto la nostra ultima dimora, la coperta per sudario, la sella per cuscino, gli stivali ancora ai piedi’, così i versi del cantastorie per i morti di Boot Hill (= colina degli stivali, con allusione alla banalità quasi quotidiana nel west della morte violenta), il famoso cimitero non lontano dal non meno famoso O.K. Corral. La morte violenta è nel west moneta corrente. Si ricordi la didascalia che apre Per qualche dollaro in più: “là dove la vita non aveva nessun valore, la morte aveva il suo prezzo…’. Essa infatti non risparmia nessuno, né uomini né animali».

Bozzetto, quindi, individua – probabilmente per poligenesi creativa – l’aspetto funerario quale possibile elemento di iperbole per un genere western giunto ormai a livello di “inorganicità”; in seguito imposta, sulle base di questa stessa “reductio” alle funzioni, un racconto comico dalle forti connotazioni parodistiche che prende a bersaglio, almeno per noi destinatari di oggi, anche il cinema di Leone, ed apre la strada a molte parodie leoniane che sanciscono di fatto l’auctoritas che la Trilogia del Dollaro costituiva nel circolo del consumo popolare e della ricezione. Film come Per un pugno nell’occhio (1964) di Michele Lupo con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, I gemelli del Texas (1964) di Steno con Walter Chiari e Raimondo Vianello, I 2 sergenti del generale Custer (1965) di Giorgio Simonelli con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Ringo e Gringo contro tutti (1966) di Bruno Corbucci con Raimondo Vianello e Lando Buzzanca, Per qualche dollaro in meno! (1966) di Mario Mattoli con Raimondo Vianello e Lando Buzzanca, I due figli di Ringo (1966) di Giorgio Simonelli e Il bello, il brutto, il cretino (1967) di Gianni Grimaldi, entrambi con Franco e Ciccio testimoniano dell’avvenuta canonizzazione dei film di Leone, che risultano perciò ironici ma non parodistici.

West & Soda si colloca dunque a questo punto dell’affollato crocicchio del western italiano, fra innovazione leoniana, cascami del film-rivista, parodia di prima e seconda fase, e ulteriori imitazioni (il resto dello spaghetti-western, politicizzato o meno, che qui ci interessa meno). E comunque, il film si ritaglia uno spazio assolutamente autonomo, che partecipa, chissà quanto consapevolmente, alla rilettura leoniana ma anticipa già gli elementi della parodia successiva, forse costituendone a sua volta un modello. Il cinema italiano degli anni Sessanta è una specie di grande “circo intertestuale”, dove anche i generi dialogano tra di loro, e fanno trasmigrare non solo le maestranze (come nel caso peplum > western), ma anche forme simboliche e strategie comunicative.

Tornando più direttamente al testo di West & Soda notiamo come, a differenza di parodie più tarde (per esempio Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks, 1974), mancano apparentemente gag di stampo metalinguistico, per solito una costante della parodia. In Brooks, infatti, si fa spesso riferimento a nomi storpiati di attori (“Hedley Lamarr”) o a capovolgimenti sintattico-semantici, ma gli esempi potrebbero essere numerosi: sfondamenti del set, macchine da presa che colpiscono vetrate, voci fuori campo incongruenti, più in generale: umoristici attacchi alle convenzioni narrative e stilistiche dei codici cinematografici e svelamenti della natura di costrutto del testo filmico.

In West & Soda, sebbene non manchino quasi tutte le categorie di retorica del comico elencate da Dan Harries[vii] come markers del lavoro parodistico (per es.: il cavallo che sgomma come un’automobile è un anacronismo in funzione farsesca), si delega l’aspetto metatestuale alle allusioni intermediali. Ad esempio, durante la sparatoria finale, Ursus dà vita a un assurdo show di danza e violino del tutto inappropriato; nel frattempo, passa il venditore di bibite strillando le proprie offerte come allo stadio (sul rapporto tra sparatoria e sport ha poi detto l’ultima parola Sam Raimi con l’intelligente The Quick and the Dead, 1995, Pronti a morire); alla fine, una voce fuori campo, rifiutandosi di chiudere il film, confessa il proprio ruolo di narratore inaffidabile e chiede al protagonista da dove fosse saltata fuori la pepita che gli era sfuggita di tasca a metà del film: la risposta di Johnny è «sciocchezze, l’avevo trovata in un detersivo». Inoltre, il rapporto con Walt Disney, Tex Avery e Chuck Jones (segnatamente Wile E. Coyote), persino Jacovitti e il suo Cocco Bill rappresentano un’ulteriore forma di interdiscorsività sul quale non ho qui competenza per intervenire, ma che risulta evidente anche al profano.

In poche parole, gli aspetti di parodia delle convenzioni enunciative e lo straniamento metalinguistico vengono da Bozzetto lasciate al confronto intermediale con la televisione, lo sport e la pubblicità, come del resto ben chiarito dal commento musicale (di  Giampiero Boneschi) e dall’uso del suono.

Proprio questo aspetto sembra illuminare la successiva parodia di Bruno Bozzetto: Vip mio fratello superuomo (1968).

La storia narra della famiglia dei VIP, supereroi nati da schiatta mitologica. I discendenti sono Supervip e Minivip, il primo atletico, indistruttibile e tutto d’un pezzo, il secondo assai diverso dai nobili progenitori: basso di statura, sgraziato, e soprattutto pavido. Depresso e in cura dallo psicanalista, Minivip si trova coinvolto in una disavventura da 007: finito per sbaglio su un’isola deserta, deve sventare i piani di Happy Betty, feroce tiranna affarista, che desidera trasformare il cervello di ogni uomo del mondo per convincerlo artatamente ad acquistare i suoi prodotti. In un rocambolesco susseguirsi di vicissitudini, che coinvolgono anche l’aitante fratello, la bella Lisa, e la “cavia” Nervustrella, il bene e l’amore trionfano.

Anche questa volta, utilizziamo l’ottima fonte critica di Renato Candia per evidenziare alcuni elementi macroscopici. Secondo Candia, infatti, Vip mio fratello superuomo intrattiene forme di dialogismo specifico con la serie di 007, di cui conserva equivalenze narrative e testuali per poi operare trasformazioni di segno comico. Secondo l’autore, il rapporto parodistico con il modello necessita di una chiarificazione; ben lungi dall’occuparsi di un singolo film come discorso (ad esempio, Balle spaziali/Guerre stellari), «la relazione che lega le vicende di Bond con quelle di Minivip si fonda invece su una serie di rinvii in prevalenza simbolici, cioè sulla possibilità di istituire aree semantiche comuni tra i singoli elementi costitutivi delle due storie: la sintesi, connaturata all’elemento simbolico qualunque sia la materia espressiva adoperata, diviene così la norma dello scarto deformante»[viii]. Se, dunque, Bozzetto sceglie di lavorare sull’intertestualità più ampia del “genere-Bond” e non fermarsi a prestiti occasionali, sembra che nuovamente siamo di fronte a un film che “respira” la cultura dell’epoca, dai superuomini di massa alle interpretazioni politiche del fumetto e dell’animazione. Appare davvero incongruo ignorare la data di uscita del film, quel 1968 che, anche solo a livello contestuale, deve certamente aver contato qualcosa per la realizzazione e la scelta dei temi del film.

Spiega esemplarmente Fausto Colombo: «Si può dire che il dato davvero sintomatico che si rileva a partire dagli anni Sessanta è una crescente distonia fra la storia dei fenomeni di consumo culturale e la vicenda del paese in termini storici, almeno come essa viene letta a partire dalla Cultura dei circuiti “alti” tradizionali. Qualche esempio: fa indubbiamente riflettere che la generazione studentesca protagonista del Sessantotto sia cresciuta consumando – accanto a una cultura scolastica che faceva perno sul liceo classico come matrice della classe dirigente futura – il fumetto nero e il cinema mitologico-seriale o quello spaghetti-western»[ix]. Per Vip mio fratello superuomo si tratta dunque di comprendere il lavoro di sintesi degli elementi culturali presenti all’epoca, e successivamente di parodia dei linguaggi sociali e mediatici. In primo luogo, come fatto per il western all’italiana, bisogna ricordare che esiste in questi anni in Italia una forte presenza di cinema spionistico, non di rado ai limiti della decostruzione farsesca: basti pensare a titoli quali Agente 077 missione Bloody Mary (1965), Agente 3S3 massacro al sole (1965), Agente 077 dall’Oriente con furore (1965), Missione speciale Lady Chaplin (1966), A 077 sfida ai killers (1966), Rapporto Fuller base Stoccolma (1967),  etc. I vari Agente 077 o Agente segreto 777 puntavano alla solita “falsificazione” alla buona delle spy-story, mentre le parodie giungevano contemporaneamente al filone italiano: pensiamo alla serie James Tont con Lando Buzzanca e a quella degli 002 con Franchi e Ingrassia. Quando si cominciano, però, a girare film come O.K. Connery (1967) di Alberto De Martino, in cui il protagonista è Neil Connery, figlio di Sean, nella parte di se stesso, affiancato dalla ex-Bond girl, la bellissima Daniela Bianchi, o come Un dollaro per sette vigliacchi (1967) di Giorgio Gentili, spionistico-comico, non si capisce più nettamente la differenza tra imitatori e parodisti. E’ il segno chiaro di una deriva intertestuale che mostra un solo profilo: quello del rilancio confuso e infinito.

Del resto, già West & Soda, come abbiamo visto, partecipa bene o male di un modello bulimico dove, a parte Leone e i testi canonizzati, si fa strada un trionfo del secondo grado piuttosto raro nel nostro cinema. Non solo: i due film di Bozzetto sono anch’essi legati da un atteggiamento simile, dove elementi di neomitologia hollywoodiana e linguaggio da Carosello costituiscono materiali già in qualche modo “lavorati” e testualizzati. Si legga, per esempio, Tullio Kezich quando scrive: «In Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più (…) si deve constatare che il Pistolero è un personaggio nuovo sulla scena del western ed è nato non a caso nell’era di James Bond e degli altri superuomini in voga nel momento attuale (in Italia sono tornati di moda i fumetti di Flash Gordon, negli Usa sta furoreggiando la serie Tv dedicata a Batman, e, a Broadway, c’è un musical sul personaggio di Superman: It’s a Bird, it’s a Plane… it’s Superman[x].

Ancora una volta, dunque, Bozzetto si staglia su uno sfondo che per il ricercatore è difficile ricostruire, ma che enfatizza – in tutta la sua evidenza – un processo di rielaborazione simbolica e di riconsiderazione dei generi audiovisivi in un dialogo sempre vivo con il destinatario. Da una parte, dunque, si fa strada una volta di più l’impressione che la parodia, anche quella animata, costituisca terreno fertilissimo per reception studies e ricostruzioni delle comunità interpretanti; dall’altra, si conferma il dato metalinguistico (altrimenti non immediato), in cui il testo, in questo caso di Bruno Bozzetto, definisce se stesso criticamente in relazione agli altri testi. Vip mio fratello superuomo lo fa in maniera ancor più esplicita che in West & Soda. Il personaggio di Minivip ha peraltro il merito di anticipare alcuni fenomeni: l’antieroe di una qualche sapore vicino alla comicità ebraica ricorda certamente Woody Allen, salvo che all’epoca di uscita del film Allen ha girato solamente Ciao Pussycat  (Hi, Pussycat!, 1965) e James Bond 007 – Casino Royale (Casino Royale, 1967), altra parodia di 007 dove l’attore ha un ruolo abbastanza secondario. Significa, cioè, che non è ancora emerso al cinema internazionale – caso mai in certi brevi racconti o nei testi per altri comici – il caratteristico protagonista nevrotico e in analisi perenne che presto darà vita, anche nella filmografia del regista, a svariate parodie[xi]. Ebbene, Minivip sembra un Allen ante-litteram con un eroe in psicanalisi, come si presenta all’inizio (e come accade, ma per derivazione alleniana, nel recente Z – La formica, 1998, AntZ). Molte sequenze, del resto, fanno riferimento a una “riduzione” paradossale del ruolo dell’eroe. Già insicuro e depresso, Minivip non ha bisogno di travestirsi per il ballo in maschera della nave in cui si trova, tanto il suo costume è adatto alla carnevalesca festa. Inoltre, fra i tratti caratteristici della “nuova semiologia” bersagliata dall’ironia di Bozzetto, vi è anche il personaggio di Lisa, laureanda in antropologia con una tesi proprio sui Vip.

Tra i tanti motivi di interesse, tuttavia, uno emerge con grande forza. Il personaggio di Happy Betty, che considera la pubblicità una “scienza pura”, mostra di apprezzare le teorie sull’uomo meccanizzato (esposte attraverso finti documentari non lontani dall’animazione di Osamu Tezuka), studia la possibilità di lanciare piccoli missili destinati a infilarsi nel cranio delle persone e ridurle a cani di Pavlov pronti all’acquisto non ha perso nulla della sua originalità. Sappiamo come Vip mio fratello superuomo abbia conosciuto varie traversie che ne hanno modificato l’impianto originario e disperso la volontà dell’autore. In ogni caso, la dimensione ironica nei confronti della pubblicità è di altissimo valore. Due sequenze lo dimostrano: nella prima, Minivip scopre reclusi all’interno delle segrete del castello di Happy Betty le cavie già modificate dal missile “pubblicitario”, ridotte a cantare per tutto il giorno sigle da spot e inscenare brevi musical da Carosello. Nella seconda, invece, assistiamo alla dimostrazione del “modello fordista” secondo Happy Betty che, di fronte agli esperti convenuti sull’atollo atomico, mostra la perfetta funzionalità della sua fabbrica: le migliaia di lavoratori presenti vengono sfruttati all’osso, e si procede a determinare per loro i cicli del lavoro, del sonno e della veglia, della salute e della malattia; persino vacanze e dopolavoro vengono orchestrate meccanicamente dai mezzi automatizzati che producono i razzi per la propaganda pubblicitaria. Se l’obiettivo satirico della sequenza è chiaro – colpire contemporaneamente l’alienazione del lavoro in fabbrica, in stile marxista e chapliniano (Tempi moderni, 1936, Modern Times), e l’alleanza tra imperialismo militarista e aggressività delle merci (siamo appunto nel 1968!) -, quello parodistico porta a incandescenza le già sperimentate formule comiche intermediali. Vip mio fratello superuomo è un film che mima e ribalta di segno le strategie enunciative dei modelli pubblicitari audiovisivi, che esibisce falsi documentari scientifici e ironici filmati di propaganda, che fa irrompere i linguaggi pubblicitari nel corso della narrazione tradizionale, in poche parole che opera a un livello molto alto di confronto intertestuale e metalinguistico.

Concludendo, possiamo affermare che, al di là degli innegabili meriti sull’artisticità delle opere e sull’innovazione grafica trasportata da questi due film, West & Soda e Vip mio fratello superuomo vanno ricordati anche per la consapevolezza con la quale identificano il proprio discorso critico nei confronti della società (attraverso il ricorso a moduli dell’intermedialità parodistica) e per il ruolo essenziale che hanno ricoperto in un periodo di grande complessità all’interno del cinema italiano di genere (sfruttando perciò gli strumenti della parodia di genere).

Inoltre, la disinvoltura con la quale Bozzetto ammette svariate influenze direttamente nel testo (Walt Disney, Warner Bros., l’animazione giapponese, l’illustrazione popolare) e comunica con il disegno a lui contemporaneo (il fumetto jacovittiano e bonviano, il Carosello animato di Cavandoli, la pop art quotidiana del design domestico, per citarne solo alcuni) ne fanno un protagonista assoluto del lungometraggio animato “di secondo grado”, ben prima delle meta-fiabe in stile Shrek (2001)  e Monsters & Co (Monsters Inc., 2002).


[i] Vedi Gérard Genette, Introduction à l’architexte (1979); tr. it.: Introduzione all’architesto, Pratiche, Parma, 1985 e Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Paris, 1982; tr. it.: Palinstesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino, 1997.

[ii] Renato Candia, Sul filo della matita. Il cinema di Bruno Bozzetto, Edizioni Cinit, Venezia, 1992, pp. 135-148.

[iii] Renato Candia, op. cit., p. 143.

[iv] Renato Candia, op. cit., p. 144.

[v] Vedi Cesare Secchi, Paolo Vecchi, Lampi e speroni danzanti. Temi e atmosfere nel western psicologico, Lindau, Torino, 2000; Raymond Bellour, Le western, Union Générale d’Editions, Paris, 1966; tr. it.: Il western, Feltrinelli, Milano, 1973.

[vi] Un approfondimento su questa ipotesi storiografica è contenuto nel mio La parodia nel cinema italiano, Hybris, Bologna, 2001.

[vii] Dan Harries, Film Parody, BFI, London, 2000.

[viii] Renato Candia, op. cit., p. 153.

[ix] Colombo, F., La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta, Bompiani, Milano, 1998, p. 98.

[x] Tullio Kezich, “Il Pistolero innominato”, in Il mito del Far West, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1980, p. 196.

[xi] Si veda la mia analisi di Il dormiglione (The sleeper, 1973) in Roy Menarini, La strana copia, Campanotto, Udine, 2003.