Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi
L’UOMO NEL BOSCO
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Il miglior film 2024 secondo i Cahiers du Cinéma non delude le attese. Alain Guiraudie, qui nel suo lavoro di gran lunga più significativo di una filmografia intelligente e un po’ discontinua, crea una specie di bestia-film mitologica che fonde Bresson, Chabrol, Dumont e Pialat. L’osservazione cruda e spietata della provincia post-politica francese si affianca a un’ironia di fondo quieta e disperata al tempo stesso, mentre le leggi del desiderio (e del desiderio tradito dei corpi anziani) governano tutto il microcosmo. Straordinario il silenzio sul passato dei personaggi, che in verità permette a ogni spettatore di scegliere che cosa pensare di ciascuno e verso chi provare la misericordia del titolo originale.
CIAO BAMBINO
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C’era curiosità per uno stimato autore di cortometraggi come Edgardo Pistone, qui al suo primo lungo. E si può dire che probabilmente abbiamo scoperto un autore. Come al solito vagamente rimproverato per la visibilità estrema dello stile (e figuriamoci, in Italia il formalismo è una parolaccia), Pistone fa stridere il cliché criminale napoletano e l’attenzione ai corpi e al romanzo di formazione, cui il bianco e nero dona un’atemporalità rigenerante. La plastica della messa in scena fa pensare al Cuarón di Roma (e non è un modello per cui sentirsi in imbarazzo). La scrittura per ora segue il comparto visivo, un giorno potrebbe completarsi in modi più imprevedibili.
LUCE
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Giustamente molto stimati, Luzi e Bellino spostano per la seconda volta nel terreno del racconto di finzione il loro cinema documentario. Costruito come un tour de force sul volto di Marianna Fontana (uno dei visi più geometricamente alternativi del fisiono-rama nazionale), Luce spinge molto sulla drammaturgia dell’assenza e sull’acusma della voce di un padre che non vediamo mai. Non sempre questo asse orale e telefonico costruisce quanto promette, ed è forse la concessione più evidente a una drammaturgia vincolante. In generale, però, la flagranza sociale e la complessità veritiera dei sentimenti rappresentati sono valori da preservare in questa coppia di autori.
NIGHTBITCH
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Per il ritorno di Amy Adams davanti alla macchina da presa ecco un film da piattaforma strano e ibrido, che ogni tanto sembra un quieto dramma domestico americano e ogni tanto sembra il Kornél Mundruczó di White God (Marielle Heller è del resto una regista particolare e colta). La scoperta metafora animalesca di una madre che si trova schiacciata sul suo mero ruolo biologico, e diventa mutaforma, viene punteggiata da inquietudini horror, elementi sovversivi, salutari scosse anti-famigliari. Alla fine però tutto si ricuce, e le sensazione prevalente è quella di un’occasione persa. Ma almeno, come scrive Marzia Gandolfi “sul prato rasato resta lo sguardo mastino di Amy Adams”.
SUGARCANE
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Candidato all’Oscar 2025 per la categoria, il documentario di Julian Brave NoiseCat e Emily Kassie ci ricorda perché è ridicolo affermare che si parla troppo di nativi americani. Strutturato come un’indagine serrata e a tratti thriller, Sugarcane scoperchia il lato genocida di Canada e Usa verso gli indigeni, con l’aggravante della ferocia contro i bambini, nelle scuole cattoliche separatiste per nativi. Lavoro profondo e riuscito, per fortuna non indebolito da forme di reportage para-televisivo, il film colpisce duro e giunge in Italia direttamente su Disney+, dopo aver vinto premi importanti al Sundance e altrove. Ne vale la pena.