Il film è tratto da una pièce di William Saroyan, importante scrittore e drammaturgo americano, che per questo suo lavoro ha vinto alcuni dei più prestigiosi premi internazionali. Nel 1948, al momento di produrne la versione cinematografica, Saroyan era uno dei più quotati artisti del paese. Per questo motivo, sul film si è puntato molto, allestendo un cast di eccezione. Il ruolo di protagonista – meglio sarebbe dire di narratore o di arbitro della lunga galleria di personaggi – è infatti James Cagney. Tutt’intorno, caratteristi di prim’ordine, che molti appassionati di classico hollywoodiano riconosceranno per averli visti in decine di film, soprattutto di genere western: Ward Bond, Broderick Crawford (che girerà anche con Fellini, Il bidone, 1956), William Bendix, Wayne Morris.
I critici americani hanno definito il film un “morality play”, con ciò intendendo un dramma dalle profonde valenze etiche e civili. Il “morality play” è una tradizione settecentesca anglosassone che si è trasferita con originale dinamismo nella cultura teatrale americana. I personaggi di questi drammi sono portatori di concezioni differenti della vita sociale, e vengono destinati a un confronto serrato sulle proprie idee di vita e sui possibili modi di raggiungere la felicità. La tendenza alla riflessione sociale e all’insegnamento dei valori propria della cultura statunitense si trova anche in I giorni della vita. In questo film, tutto ruota intorno al Nick’s Saloon, un albergo ristorante frequentato da alcuni tipi fissi e da avventori occasionali. Tra di loro, c’è un po’ tutta l’America che si arrangia nella vita: piccoli truffatori, showmen in cerca d’ingaggio, ragazze dal passato poco raccomandabile, ricattatori e malavitosi, ma anche molte persone pulite, che cercano semplicemente di riscattarsi da una vita difficile.
Vista l’origine del testo, si può ben immaginare che gran parte della narrazione è affidata al dialogo e all’unità di luogo e azione. Scelta rischiosa, certo: tuttavia, quando la sostanza c’è – e in questo caso, in abbondanza – lo spettatore non risente di alcuna claustrofobia. Anzi, Time of Your Life è un film intellettualmente vivace, arguto, coinvolgente. La qualità dei dialoghi, molto fedeli al testo originale, è altissima. I personaggi sono uno più riuscito dell’altro: basti pensare alla figura dell’anziano “Buffalo Bill” che rappresenta simbolicamente tutto il passato degli Stati Uniti, quello dei pionieri e del mito. Ma anche il personaggio femminile, che afferma di aver viaggiato in lungo e in largo con una compagnia di varietà, dice qualcosa sull’intreccio di verità e finzione tipico della grande terra dei sogni, l’America.
Non si deve pensare che I giorni della vita sia un film solare. Lungo tutta la durata della pellicola, il tono è malinconico, intervallato da continue performance, canzoni, monologhi, esternazioni, crisi. Ognuno dei protagonisti ricava il proprio momento espressivo. In questi casi, il resto del cast diventa una sorta di pubblico muto, di spettatore della personalità altrui. Come per molti altri film presentati in questa stessa collana, la recente tragedia bellica aleggia sulla scena più di quanto non si pensi. Il cinema classico hollywoodiano, infatti, ancorandosi a codici e linguaggi solidi e riconoscibili, appare meno penetrabile agli eventi – anche traumatici – della realtà storica. In verità, i lutti e le glorie del secondo conflitto mondiale hanno lasciato il segno.
Il secondo dopoguerra è un periodo di assestamento per tutta la società statunitense. Si moltiplicano, in questi anni, i film che – in forma metaforica – riflettono sulla comunità, sul concetto di convivenza, sulla sensazione che una nuova, matura concezione del vivere insieme sia a portata di mano. I giorni della vita è uno dei film che risente del clima di questo periodo. Nel microcosmo narrativo di Saroyan, infatti, si può in filigrana scorgere una tipologia di società, una visione umana e comprensiva delle debolezze umane e degli errori quotidiani.
Dal punto di vista stilistico, il film presenta molti tratti di interesse. La macchina da presa denuncia continuamente la sua presenza, grazie a movimenti molto elaborati e a scelte inconsuete di rappresentazione dello spazio. Spesso, il personaggio che parla è inquadrato in modo da permettere di osservare ciò che avviene dietro di lui, in profondità di campo. Il bar dove si svolge la vicenda, poi, è raffigurato da tutti i punti di vista, quasi che si intendesse donare allo spettatore la prospettiva di ogni personaggio. Il gioco dei chiaroscuri offre risultati di gran qualità, specie quando nella stessa inquadratura compaiono particolari composizioni visive. La direzione degli attori è ragguardevole, tanto che l’affiatamento decreta la riuscita dell’operazione.
Il responsabile di un così brillante esito è H.C. Potter, cineasta di grande esperienza, non alieno all’ambiente teatrale. Tra i suoi film più celebri, il musicale Follie di Jazz (1941), la sarabanda di Helzapoppin’ (1941), e il grande melodramma Addio, signora Miniver (1950), seguito del celebre successo di William Wyler del ’42. Potter è abituato alla dismisura e alle emozioni più eccessive (riso, pianto, comicità dell’assurdo, come anche in La casa dei nostri sogni, 1948). Qui, invece, mostra una sapienza registica inattesa, un rigore estetico da grande autore.
Il lavoro sugli attori è essenziale. James Cagney ha impersonato per anni il gangster intraprendente e carismatico destinato alla sconfitta (Nemico pubblico, 1931; I ruggenti anni Venti, 1939), poi – negli anni Quaranta – ha saputo ammorbidire i toni delle sue interpretazioni (Bionda fragola, 1941; Sposa contro assegno, 1941), senza mai dimenticare la grinta delle origini (La furia umana, 1949). Potter sembra infatti incaricare Cagney del ruolo di “pivot”, per usare una metafora cestistica. Proprio lui, infatti, commenta gli avvenimenti in voce fuori campo, lui che offre la battuta agli altri personaggi, lui il perno intorno al quale girano gli altri attori: come se fosse al centro della scena per coordinare, da direttore d’orchestra, le interpretazioni dei suoi musicisti.
Con il volto schiacciato ma pieno di calore umano, il suo personaggio entra direttamente in azione solo nel finale, contribuendo a costruire un futuro migliore, se non per sé, almeno per le persone che ha imparato a conoscere. I giorni della vita è un piccolo grande film, che vale la pena recuperare e collocare nell’antologia dei classici.