Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

BALLERINA
Il mezzo flop di Ballerina coinvolge box office e valore del film, a dimostrazione che (al contrario di quel che si crede) l’azione – come la gag comica – è un campo difficile e teorico. L’universo John Wick ha portato il dinamismo violento a limiti parossistici, in una strana zona astratta dove il linguaggio videoludico coabita con Buster Keaton (anche qui debitamente citato). Con Len Wiseman, regista da sempre blando e privo di furia visiva, l’impressione è di un downgrade cinetico, che coinvolge tanto le coreografie quanto i corpi. E la mitologia narrativa non ha il respiro per colmare le lacune nella filosofia del movimento. Purtroppo anche Ana de Armas non trova la cifra giusta, impacciata a più livelli (era materia per Charlize Theron, probabilmente, ma intuiamo i problemi anagrafici e di statuto della star). Anche se c’è un cliffhanger, sarà difficile assistere a un sequel di questo spin off.
KARATE KID: LEGENDS
Strapazzato dalla critica, il riallineamento industriale del Karateverse ha forse come colpa principale quella di volare basso. L’estetica è di un Peter Parker in minore, del resto citato nei dialoghi, mentre la New York di quartiere oscilla tra graffitismo teen e scenario da dance squad. Alla fine, però, questo feel good movie da prima media non sembra di per sé sbagliato. I buoni e i cattivi sono sempre gli stessi di sequel in sequel, le facce nostalgiche non mancano, e il Jackie Chan incanutito muove a simpatia. La materia narrativa è pure troppa (pensiamo alla storia parallela del pizzaiolo boxeur allenato dal piccolo kung fu master), ma viene svolta in 90 minuti spicci, senza menare il can per l’aia. Un cinema estraneo a tutto tranne che a sé stesso.
L’AMORE CHE NON MUORE
Classica buccia di banana per la cinefilia: premiare la generosità, ma fino a che punto? Certo, è verissimo che Lellouche sembra possedere un grande cuore: mostra di aver divorato tonnellate di cinema francese (e non solo); di perseguire scientemente una storia di passioni, viscere, violenza ed erotismo; di guardare tanto allo stile di Beineix quanto al polar. Ma tutto sa di giustapposizione, di qualcosa cui paradossalmente mancano proprio lo sguardo e la competenza cinefila per pompare propano dentro un marchingegno confusionario. E alla fine persino Adèle Exarchopoulos non riesce a fare quello che ha fatto in Generazione Low Cost, Mandibules, Bac NORD, Passages, ovvero trasferire di film in film un’alterità assoluta e una inappartenenza dolorosa al mondo. Lellouche si fa trovare troppo “dentro” al giocattolo e alle silhouette.
VOLVERÉIS
Rovescio della medaglia del film di Lellouche. Qui la cinefilia diventa teoria del cinema, nessuna concessione allo sperdimento nel visionario, bensì una costruzione narrativa che reca con sé la bibliografia (si citano Stanley Cavell e la sua filosofia della commedia del rimatrimonio, il regista – Trueba figlio – fa interpretare il padre al vero Trueba padre, i personaggi vanno sul set di Dieci capodanni di Sorogoyen, i protagonisti fanno film e parlano di film, e così via, in pieno meta-cinema). Irritante? Non si può negare del tutto. Però qui sì che c’è competenza della grammatica affettiva, comprensione dei meccanismi narrativi, umanesimo diffuso, un “partito preso” di messinscena, seppur apparentemente dimesso. Perché alla fine, quel che conta è se la commedia sentimentale funziona e se ha una filosofia di vita. Due sì.
BALENTES
Sta circolando in tour, essendo impensabile una tenitura fissa nei cinema, il nuovo lavoro di Giovanni Columbu, come al solito a vari anni di distanza dal precedente (Surbiles, 2017). Primo film di animazione della sua filmografia – rarefatta, spartana, sospesa tra documentario etnografico e finzione -, Balentes racconta un’impresa di epica anti-fascista sarda, mescolata con la fiaba da caminetto. Grazie a un semplice rotoscopio, Columbu anima un universo orale che necessita di pochi tratti – anche se i disegni sono tantissimi, bellissimi, ed è evidente quanto tempo gli sia stato necessario per mettere insieme quest’ora e dieci di narrazione animata. L’arcaico, il religioso, il mitico e il moderno storico interagiscono: la scelta della distanza di scala rispetto alle figure che vediamo permette di osservare meglio il piano e lo spazio e di porre l’occhio come a un kinetoscopio. Coraggioso.
PREDATOR: KILLER DEI KILLER
La linea tracciata da Dan Trachtenberg (qui coadiuvato da Joshua Wessung), ovvero quella di portare il Predator in giro per la Storia, funziona per la seconda volta dopo Prey. Primo episodio animato della saga, non ha forse nel disegno (sia pure riuscito) il punto di forza, bensì in una struttura episodica che si salda nel finale e permette di spaziare fra vari generi, tra cui epico, avventuroso, esotico, storico. Tutto si gioca sul contrasto tra sproporzione delle forze in campo e capacità di colmarle grazie al coraggio e all’antichità delle grandi arti guerriere. Il target è poco più che adolescenziale; il cupo, adulto, esaltante fanta-horror alla McTiernan è ormai lontanissimo, di sequel in sequel; ma se non si vive di nostalgie, bisogna ammettere che il tassello minore del puzzle predatorio s’incastra con tutti i bordi giusti.
THE FOUR SEASONS
La comedy sembra stare meglio di altri generi, in questa fase di caotica transizione della serialità. Ispirato a un bel film di Alan Alda (che fa una comparsata mostrandosi anziano, fragile e tenero), The Four Seasons magari non riesce del tutto a trasportare nel nostro secolo gli umori sessuali e irriverenti della Hollywood fine ’70/inizio ’80 ma può contare su sguardi molto lucidi – a cominciare da quello di Tina Fey, che idea, scrive, dirige, interpreta. Non è un “one woman show” perché si gioca tutto sul collettivo, nel quale spiccano Colman Domingo e Kerri Kenney-Silver, altra comedian di razza. Funziona la malinconia di fondo, con il disinnamoramento, la mortalità e i dilemmi della mezza età al centro del discorso. Interessante anche il ribaltamento di sguardo sul cinquantenne vanesio (Steve Carell) in cerca di giovinezza: alla fine forse aveva ragione lui.
GOOD AMERICAN FAMILY
Chi pensa che ormai la categoria di guilty pleasure sia squalificata e indeterminata si deve ricredere. Good American Family ha tutte le caratteristiche del prodotto seriale con difetti spaventosi e momenti kitsch che non si riesce ad abbandonare. Qui, però, c’è qualcosa di più: un enorme caos ideologico. Concepito come un crime drama legato alla tragica storia di una bambina adottata e creduta adulta truffatrice (come nel film Orphan, peraltro citato esplicitamente), la serie – in cui hanno messo le mani anche personalità interessanti come Liz Garbus – si intorcina in modo sempre più delirante: manipola lo spettatore con una specie di Rashomon incoerente; rischia di sfruttare ignobilmente il corpo di Imogen Faith Reid (affetta da sindrome di Russell-Silver); ogni volta che ha l’occasione di volare più alto, si auto-confina in un’estetica da serie generalista inemendabile; gli attori vagano spaesati (Ellen Pompeo pronta per un Razzie), ecc. Eppure tutto questa confusione mentale e creativa non impedisce di scavare nelle contraddizioni sociali, legali e di fatto culturali americane – anzi la serie stessa e la sua scrittura diventano parte del problema. Molto affascinante.
