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Tag: Chris Columbus

CINEMA PUNK E SEGNALI POLITICI

UNA SCOMODA CIRCOSTANZA

Aronofsky riparte da un budget limitato e una storia non sua, bensì di Charlie Huston. Il riferimento è Fuori orario (c’è Griffin Dunne e piccoli particolari a confermarlo) ma di per sé non sarebbe una gran novità, visto che lo si è detto anche per Anora e per mille altri titoli. Conta di più la malinconia newyorkese che emerge se si scrostano pulp e risatacce, con un giovane uomo “no future” che non a caso finisce con una cresta sul cranio (mente gli Idles impazzano in colonna sonora). Saggetto di regia, peraltro: un’organizzazione perfetta di azione, interni vissuti, esterni metropolitani pre-11 settembre, plastica di corpi e sfondi, facce (vince Carol Kane) ed etnie. Forse è la crisi dell’America retrodatata, e Aronofsky ci dice, tra un’esasperazione e l’altra, che non ce ne eravamo accorti.

À SON IMAGE

Ritratto di una giovane donna, aspirante fotografa, nel difficile milieu della Corsica anni 70/80 attraversata da germi rivoluzionari e militanza armata indipendentista. Come si può restare fedeli a sé stesse e al tempo stesso vivere come “la donna dell’eroe”? Divisa in questo scacco – che è anche una sospensione tra la brutale lotta per la terra e la voglia di conoscere il mondo – la protagonista sembra capire solo la guerra, finendo con l’andare in mezzo al confitto nella ex Jugoslavia. De Peretti tiene tutto a distanza, i primi piani non esistono: la collettività in lotta travolge i soggetti dimenticandoli e chiedendo alla donna di assistere alla rivoluzione dal focolare. Un risultato cinematografico duro, eccellente, in cui la vita non ha senso proprio quando tutti dicono di avere una missione.

ENZO

Pensato e concepito da Laurent Cantet, poi prematuramente scomparso, e diretto con molto rispetto da Robin Campillo, Enzo è anche prodotto dai Dardenne e altre firme note. Ma, a dispetto della comunità cinefila e registica che lo sostiene, e al di là della commozione per il progetto e ciò che gli sta dietro, è un film molto piccolo. Fatto di pochi ambienti (contrastanti: un cantiere polveroso e una villa con piscina), parla a modo suo di lotta di classe, di adolescenza, di identità di genere, di guerra, senza che nessuno dei temi si accumuli in modo eccessivo o che la lezione sociologica si imponga con prepotenza. Di contro, non sarebbe nemmeno corretto amplificarne la portata, considerandolo il capolavoro che non è. L’onestà e la modestia lo contraddistinguono felicemente.

KNEECAP

Diciamolo subito: la storia del gruppo hip hop nordirlandese, politico e sfacciato, è di per sé straordinaria. L’idea di farla recitare ai membri medesimi, in una “true story” totalmente anti-documentaristica, funziona. Per capirci, siamo dalle parti di uno stile frenetico di fine secolo scorso (tipo post-Trainspotting) affiancato all’approccio pop/nerd di Rovere/Sibilia – ovviamente per un caso, dubitiamo sia imitazione volontaria. C’è poi Michael Fassbender efficace come raramente gli è capitato di recente. Gli appassionati di storia dell’isola e dei suoi “troubles” capiranno meglio il tutto. Inutile dire che, per la mescolanza di lingue (inglese e gaelico irlandese), va visto obbligatoriamente in originale.

I ROSES

Liquidata come un remake non richiesto di una commedia nera più celebre che riuscita (anche se sul Danny DeVito regista bisognerebbe tornare), la nuova trasposizione del romanzo di Warren Adler offre parecchi spunti di interesse. La sceneggiatura di McNamara ne conferma la penna di scrittore acido con punte grossier. E a intrigare c’è anche la scelta di un regista come Jay Roach, vulgar auteur capace e riconoscibile, che sa lavorare (meta)cinematograficamente su quello che la storia racconta: così come i due snob inglesi innamorati finiscono col massacrarsi travolti dal sogno capitalista americano, anche la comicità british (i dialoghi) finisce lentamente nel tritacarne del demenziale USA. La scena della cena dove gli amici cercano di imitare le loro schermaglie ma trascendono nel pecoreccio è una vetta teorica. Merita una visione meno distratta.

LONG STORY SHORT

Nuova creatura (su Netflix), molto attesa, per Raphael Bob-Waksberg di BoJack Horseman. Qui siamo decisamente più in comfort zone: una famiglia ebrea americana con mille problemi relazionali interni, faticose relazioni con le altre culture, lutti alle spalle, situazioni tragicomiche e un sacco di jewish humour. Gli episodi creano, attraverso un lento meccanismo di composizione del puzzle narrativo, un unico affresco dove le aspirazioni e le frustrazioni di ciascuno sembrano innate all’esistenza stessa. Descritto così (come effettivamente è) dovrebbe sortite un risultato straordinario. Invece l’autore sembra avere troppa fiducia che l’ennesima famiglia disfunzionale di matrice letteraria, con ascendenze alleniane (le solite battute autoironiche sull’ebraismo, una più stanca dell’altra), debba essere applaudita in quanto tale. Si guarda con rispetto, sia chiaro, ma a setacciare nel profondo rimane pochino.

IL CLUB DEI DELITTI DEL GIOVEDÌ

Già dai primi cinque minuti si capisce quanto sia devastante il third age movie di Netflix: musichetta di sottofondo da supermercato, movimenti di macchina kitsch, estetica marchio Hallmark (qualcuno ricorda?). Lungi da noi fare ageismo, anzi la produzione per il pubblico anziano è un fatto di mercato degno da tempo di essere studiato. Ma non per questo dobbiamo farci piacere un giallo eufemistico e letargico in cui precipita la povera Helen Mirren insieme a Pierce Brosnan. La cosa buffa è che c’è mezzo cast di Mobland, compresi appunto i suddetti protagonisti: là erano meravigliosamente sadici e fuori di testa; qui si adeguano a un orizzonte di consumo insincero e lezioso. Peccato per Chris Columbus, che forse cercava la trasparenza dei bei tempi.

Alla prossima!