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Tag: Cinema Ritrovato 2020

I tre sguardi di “elephant man”

Quarant’anni dal capolavoro di David Lynch. Il restauro, attentamente coordinato dall’Immagine Ritrovata, e in particolare da Davide Pozzi, insieme allo stesso Lynch (dalla California), ripropone il bianco e nero di Freddie Francis in maniera intensa e classicizzante.

Avendo avuto il privilegio di introdurre il film, ho proposto al pubblico questo dubbio. Che cosa sarebbe stata la carriera di Lynch se l’equilibrio trovato questa volta e la fiducia accordatagli da Mel Brooks si fossero ripresentate per tutta la carriera? Nessuno ovviamente vorrebbe cambiare la magnifica carriera di David Lynch, a cui del resto chi scrive ha dedicato libri e saggi, ma quarant’anni dopo viene la tentazione di immaginare un Lynch completamente hollywoodiano e come sarebbe stato il suo cinema se si fosse svolto sempre all’interno della produzione ufficiale.

In ogni caso, come in altri articoli dedicati al Cinema Ritrovato 2020, ospitiamo un pezzo d’epoca, saccheggiando il catalogo del festival, e stavolta tocca a Serge Daney (Cahiers du Cinéma, aprile 1981):

“Nel corso del film John Merrick è oggetto di tre sguardi. Tre sguardi, tre epoche del cinema: burlesca, moderna,classica. O anche: il baraccone, l’ospedale, il teatro. C’è innanzitutto lo sguardo dal basso, quello del popolino,e lo sguardo (duro, preciso, brusco) di Lynch su questo sguardo. Ci sono sprazzi carnevaleschi, nella scena in cui Merrick viene ubriacato e sequestrato. Nello spettacolo da baraccone non c’è un’essenza umana da incarnare (nemmeno sotto le sembianze di un mostro), c’è solo un corpo da schernire. Poi c’è lo sguardo moderno, quello affascinato del medico, Treves: rispetto dell’altro e cattiva coscienza, erotismo morboso ed epistemofilia. Occupandosi dell’uomo elefante Treves salva se stesso: è la battaglia propria dell’umanista (alla Kurosawa).

C’è infine un terzo sguardo. Più l’uomo elefante è conosciuto e festeggiato, più coloro che gli fanno visita hanno il tempo di costruirsi una maschera, una maschera di cortesia che dissimula ciò che provano vedendolo. […]Il finale del film è molto commovente. A teatro, quando Merrick si alza nel suo palco perché coloro che lo applaudono possano vederlo meglio, non si sa più precisamente cosa c’è nel loro sguardo, non si sa più cosa vedono. Lynch è allora riuscito a riscattare – l’uno attraverso l’altra, dialetticamente – il mostro e la società. Ma solo a teatro, solo per una sera. Non ci saranno altre rappresentazioni”.

Le gambe di henry fonda

Henry Fonda non sa bene dove mettere le gambe e per questo ha bisogno di spazio. Un uomo alto, magro, ma non impacciato. Gli piace sedersi e dondolarsi, qui e in famosi film successivi (primo fra tutti, Sfida infernale). In Alba di gloria è tutto un sedersi in posti improbabili, trovare uno strapuntino dove posare il sedere e trovarsi le ginocchia in bocca, camminare lentamente davanti alla corte di giustizia mentre interroga i testimoni, sdraiarsi appena può in un bosco o in un cortile. Il Lincoln che John Ford gli costruisce addosso ha poco dell’imitazione ritrattistica (anche se il naso posticcio di Fonda serve a ricordarne i noti tratti somatici) e molto dell’andamento dinoccolato e della prestazione corporea di un Fonda meraviglioso, al tempo stesso pigro e pugnace.

Come scrive Geoffrey O’Brien (lo ricorda il curatore della sezione su Fonda al Cinema Ritrovato 2020. Alexander Horwath): “Il Lincoln di Ford è l’immagine speculare del regista. Immagine ulteriormente rispecchiata dalla “straordinaria interpretazione di Fonda. La sua collocazione nello spazio, la sua distanza relativa da coloro che lo circondano e la sua dose di agio o disagio sono punti di riferimento costanti. Non riusciamo a togliergli gli occhi di dosso, eppure a momenti quasi scompare nella massa. La sua maturazione politica, quando affronta la folla che vuole linciare i suoi clienti, è compensata dai momenti in cui prende le distanze e guarda lontano o dentro di sé. Ogni punto di contatto e ogni perdita di contatto sono registrati con un’ipersensibilità elettrica, non da ultimo in scene che paiono immerse in una quiete pastorale”.

Come a dire che i formalismi della messa in scena e gli studi sul linguaggio classico vanno spesso a sbattere contro i nodi più particolare della significazione cinematografica e soprattutto della produzioni di effetti emotivi e nella costruzione dell’identificazione spettatoriale. Molto passa attraverso l’attore e la sua gestualità, o persino – nel caso di Ford e Fonda – attraverso una magnifica collaborazione basata su di un preciso progetto spaziale e recitativo.

Lo stesso Fonda racconta: “Non conoscevo Ford. Conoscevo i suoi film e gironzolavo sul set quando girava Ombre rosse. Me ne stavo lì davanti alla sua scrivania come un sottufficiale con il cappello bianco in mano, e lui era l’ammiraglio. Le sue parole suonarono all’incirca cosi: ‘Cos’è ‘sta stronzata che non vuoi interpretare Lincoln? Credi che sia quel cazzo di Presidente? È un giovane e inesperto avvocato di Springfield, Cristo santo’. Ed è così che mi minacciò e mi convinse”.

Un Oscar e una bottiglia

In La diva The Star di Stuart Heisler del 1952, proiettato al Cinema Ritrovato 2020 – c’è questa meravigliosa scena di Bette Davis, attrice in declino, che afferra il suo Oscar, lo mette sul lunotto della macchina, e comincia a guidare bevendo smodatamente. Il film non è gran che e non riesce a pareggiare Viale del tramonto (e a Bette Davis deve essere dispiaciuto, persino in una sfida su personaggi di dive in crisi), però possiede alcuni assoli eccezionali. Come questo.

Ne scrive molto intelligentemente Ehsan Khoshbakht: “Girato in ventiquattro giorni, il film è ben articolato ed esplora alcuni dei temi prediletti di Heisler, come il conflitto tra maternità e carriera (Smash-UpTulsa) e l’esclusione da un mondo, quello dello spettacolo, che è stato al centro di sogni e sacrifici (Smash-Up). I personaggi vanno alla deriva fino al limite estremo prima di fare ritorno, feriti ma lucidi (si veda anche Journey into Light). Heisler mette a nudo le emozioni, rendendo i personaggi ancora più vulnerabili di quel che sono. A prevalere è il linguaggio del melodramma, portato qui quasi alla perfezione, ma il vagare disperato nella notte e il bussare affranto alle porte richiamano anche la logica del noir”.

Straordinario il momento in cui Bette Davis guarda se stessa nei giornalieri dopo aver testardamente chiesto di poter cambiare la propria recitazione e ringiovanito il personaggio che doveva interpretare. La donna si accorge di quanto è inappropriata e smorfiosa sullo schermo e piange se stessa. Il film, poi, è di maschilismo quasi accanito, dando alla donna un’unica via d’uscita: le braccia di un marito stabile.