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Tag: Darren Aronofksy

CINEMA PUNK E SEGNALI POLITICI

UNA SCOMODA CIRCOSTANZA

Aronofsky riparte da un budget limitato e una storia non sua, bensì di Charlie Huston. Il riferimento è Fuori orario (c’è Griffin Dunne e piccoli particolari a confermarlo) ma di per sé non sarebbe una gran novità, visto che lo si è detto anche per Anora e per mille altri titoli. Conta di più la malinconia newyorkese che emerge se si scrostano pulp e risatacce, con un giovane uomo “no future” che non a caso finisce con una cresta sul cranio (mente gli Idles impazzano in colonna sonora). Saggetto di regia, peraltro: un’organizzazione perfetta di azione, interni vissuti, esterni metropolitani pre-11 settembre, plastica di corpi e sfondi, facce (vince Carol Kane) ed etnie. Forse è la crisi dell’America retrodatata, e Aronofsky ci dice, tra un’esasperazione e l’altra, che non ce ne eravamo accorti.

À SON IMAGE

Ritratto di una giovane donna, aspirante fotografa, nel difficile milieu della Corsica anni 70/80 attraversata da germi rivoluzionari e militanza armata indipendentista. Come si può restare fedeli a sé stesse e al tempo stesso vivere come “la donna dell’eroe”? Divisa in questo scacco – che è anche una sospensione tra la brutale lotta per la terra e la voglia di conoscere il mondo – la protagonista sembra capire solo la guerra, finendo con l’andare in mezzo al confitto nella ex Jugoslavia. De Peretti tiene tutto a distanza, i primi piani non esistono: la collettività in lotta travolge i soggetti dimenticandoli e chiedendo alla donna di assistere alla rivoluzione dal focolare. Un risultato cinematografico duro, eccellente, in cui la vita non ha senso proprio quando tutti dicono di avere una missione.

ENZO

Pensato e concepito da Laurent Cantet, poi prematuramente scomparso, e diretto con molto rispetto da Robin Campillo, Enzo è anche prodotto dai Dardenne e altre firme note. Ma, a dispetto della comunità cinefila e registica che lo sostiene, e al di là della commozione per il progetto e ciò che gli sta dietro, è un film molto piccolo. Fatto di pochi ambienti (contrastanti: un cantiere polveroso e una villa con piscina), parla a modo suo di lotta di classe, di adolescenza, di identità di genere, di guerra, senza che nessuno dei temi si accumuli in modo eccessivo o che la lezione sociologica si imponga con prepotenza. Di contro, non sarebbe nemmeno corretto amplificarne la portata, considerandolo il capolavoro che non è. L’onestà e la modestia lo contraddistinguono felicemente.

KNEECAP

Diciamolo subito: la storia del gruppo hip hop nordirlandese, politico e sfacciato, è di per sé straordinaria. L’idea di farla recitare ai membri medesimi, in una “true story” totalmente anti-documentaristica, funziona. Per capirci, siamo dalle parti di uno stile frenetico di fine secolo scorso (tipo post-Trainspotting) affiancato all’approccio pop/nerd di Rovere/Sibilia – ovviamente per un caso, dubitiamo sia imitazione volontaria. C’è poi Michael Fassbender efficace come raramente gli è capitato di recente. Gli appassionati di storia dell’isola e dei suoi “troubles” capiranno meglio il tutto. Inutile dire che, per la mescolanza di lingue (inglese e gaelico irlandese), va visto obbligatoriamente in originale.

I ROSES

Liquidata come un remake non richiesto di una commedia nera più celebre che riuscita (anche se sul Danny DeVito regista bisognerebbe tornare), la nuova trasposizione del romanzo di Warren Adler offre parecchi spunti di interesse. La sceneggiatura di McNamara ne conferma la penna di scrittore acido con punte grossier. E a intrigare c’è anche la scelta di un regista come Jay Roach, vulgar auteur capace e riconoscibile, che sa lavorare (meta)cinematograficamente su quello che la storia racconta: così come i due snob inglesi innamorati finiscono col massacrarsi travolti dal sogno capitalista americano, anche la comicità british (i dialoghi) finisce lentamente nel tritacarne del demenziale USA. La scena della cena dove gli amici cercano di imitare le loro schermaglie ma trascendono nel pecoreccio è una vetta teorica. Merita una visione meno distratta.

LONG STORY SHORT

Nuova creatura (su Netflix), molto attesa, per Raphael Bob-Waksberg di BoJack Horseman. Qui siamo decisamente più in comfort zone: una famiglia ebrea americana con mille problemi relazionali interni, faticose relazioni con le altre culture, lutti alle spalle, situazioni tragicomiche e un sacco di jewish humour. Gli episodi creano, attraverso un lento meccanismo di composizione del puzzle narrativo, un unico affresco dove le aspirazioni e le frustrazioni di ciascuno sembrano innate all’esistenza stessa. Descritto così (come effettivamente è) dovrebbe sortite un risultato straordinario. Invece l’autore sembra avere troppa fiducia che l’ennesima famiglia disfunzionale di matrice letteraria, con ascendenze alleniane (le solite battute autoironiche sull’ebraismo, una più stanca dell’altra), debba essere applaudita in quanto tale. Si guarda con rispetto, sia chiaro, ma a setacciare nel profondo rimane pochino.

IL CLUB DEI DELITTI DEL GIOVEDÌ

Già dai primi cinque minuti si capisce quanto sia devastante il third age movie di Netflix: musichetta di sottofondo da supermercato, movimenti di macchina kitsch, estetica marchio Hallmark (qualcuno ricorda?). Lungi da noi fare ageismo, anzi la produzione per il pubblico anziano è un fatto di mercato degno da tempo di essere studiato. Ma non per questo dobbiamo farci piacere un giallo eufemistico e letargico in cui precipita la povera Helen Mirren insieme a Pierce Brosnan. La cosa buffa è che c’è mezzo cast di Mobland, compresi appunto i suddetti protagonisti: là erano meravigliosamente sadici e fuori di testa; qui si adeguano a un orizzonte di consumo insincero e lezioso. Peccato per Chris Columbus, che forse cercava la trasparenza dei bei tempi.

Alla prossima!

DI UOMINI, DI LUCI , DI MEMORIE E DI CORPI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE WHALE

Conferma quasi tormentosa della poetica corporea di Darren Aronofsky: il racconto claustrofobico cozza contro il fisico debordante (prostetico) di Brendan Fraser. Ci sono due film in uno: quello borghese, d’essai, da Oscar teatralizzato, e quello biblico, mostruoso, eccedente che piace al regista; cioè la fusione perfetta tra Madre! e Noah, bingo con cui Aronofsky frega chi lo aspettava di due varchi. Ultima nota: le metafore dei protagonisti in scena (cura, religione, famiglia, professione, arte) somigliano ai personaggi-allegoria di Bussano alla porta.

EMPIRE OF LIGHT

Maltrattato perché erroneamente paragonato a The Fabelmans (quando in verità non c’entra niente). La sala cinematografica di Mendes è principalmente lavoro: i commessi sono depressi o bullizzati, e la tenerezza tra due esclusi serve principalmente a un affresco intimo e storico sui primi anni della Thatcher. Poi c’è anche la parte tornatoriana della proiezione salvifica, ma tutto sommato attutita dalla prova mostruosa di Olivia Colman (mi spiace per chi lo ha visto doppiato), dalla fotografia semplicemente prodigiosa di Roger Deakins (che torna alle sue prove da fotografo di provincia) e dalla musica di Reznor e Ross, puramente pianistica e ormai estranea a ogni rumore industriale.

SHARPER

Nessuno ha ancora capito quale sia il pubblico del “cinema” di Apple+TV, che continua a finanziare un sacco di titoli a fondo perduto. Questo thriller che sembra tornare al postmodernismo narrativo dell’epoca fincherian-soderneghiana anni ’90 (senza averne minimamente la politicità) funziona solo come pleasure nemmeno troppo guilty. Mangiata la prima polpetta avvelenata, lo spettatore scafato – o anche solo sveglio – non tarderà a prevenire il meccanismo. Ovviamente Julianne Moore vale sempre il biglietto (o mezzo abbonamento).

MIXED BY ERRY

La premiata ditta Rovere/Sibilia continua a macinare cinema e serialità con un’esuberanza progettuale che va celebrata. Non sempre le ciambelle escono col buco (doloroso il passo falso di L’incredibile storia dell’Isola delle rose), ma c’è l’intelligenza di applicare sempre la stessa idea (storia vera di giovani che sfidano la legge attraverso forme creative) in diversi contesti storici e geografici. Qui funziona quasi tutto, anche se con eccessi di durata, a cominciare da attori e vicenda, che sfiora la dimensione teorica: il falso che viene autenticato solo quando viene a sua volta falsificato.

LAGGIÙ QUALCUNO MI AMA

Il documentario d’autore sui grandi del cinema italiano si sta divaricando tra i grandi nomi che vi si applicano (Tornatore, qui Martone) e i più piccoli che combattono la loro battaglia sullo stesso campo (Alessandro Bencivenga, Francesco Zippel, ecc.). Merito di Martone è di fare sostanzialmente un video-saggio pacato e profondo su Troisi, lasciando parlare molto le sue sequenze più belle, facendo interviste acute, mostrando cinefilia – e la presenza dei critici di Sentieri Selvaggi ne è riprova. Tradizionale, sì, ma in certi momenti irresistibile per come penetra la filosofia troisiana.

CALL MY AGENT

Il problema era noto. Una serie di questo tipo può innalzarsi dall’inside joke solo se dimostra che il cinema vive in un habitat dove lo star system e il dinamismo del pubblico sono evidenti. Visto che da noi così non è, la serie deve per forza adattare l’originale francese sfruttando i pochi divi riconoscibili, da Accorsi a Favino, da Cortellesi a Sorrentino, che stanno al gioco con innegabile simpatia ma con risultati scolastici, quando non sempliciotti. Possiamo dire che comunque si cade in piedi, viste le premesse? Forse sì, ma è come quando a Masterchef gli aspiranti cuochi cercano di replicare il piatto del grande ospite: bravini e basta.