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Tag: Joel Coen

RIFONDAZIONE DEL CINEMA E ANATOMIE COMPARATE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

IL LIBRO DELLE SOLUZIONI

Era difficile immaginare un ritorno così maiuscolo per Michel Gondry. Grazie a una seduta di auto-analisi intorno alla depressione e all’urgenza del fare cinema, l’autore riesce con la sua imprevedibilità ad evitare ogni effetto di meta-cinema felliniano. Piuttosto, il film diventa da una parte terapia (e dignità della terapia in sé, da offrire allo spettatore con meravigliosa impudenza) e dall’altra invenzione nella sua accezione più letterale. Ed è proprio il profluvio di idee fondative (dalla foglia bucata come mascherino al “camiontaggio”, dalla colonna sonora composta gestualmente alle animazioni) che rende Il libro delle soluzioni una pur rifondazione del cinema. Cinema come bricolage ma tutto sommato anche cinema come infinita possibilità di sintesi originale dei gesti artistici, qualsiasi forma prendano. Sarebbe un peccato che, con la sua aria dimessa e fragile, questo bellissimo film sul concetto di fantasia prendesse la strada della “curiosità minore” nella filmografia dell’ex-regista di culto.

ANATOMIA DI UNA CADUTA

Che cosa gli vuoi dire, a un film così? Una storia solidissima dal punto di vista drammaturgico, che parte da una morte misteriosa e comincia a scavare nel prima e nel dopo attraverso l’indagine, i personaggi, gli eventi. Il gioco con lo spettatore è ovvio quanto riuscito: a chi crediamo? e perché? con quali pregiudizi? Al centro una figura di donna: non per forza piacevole, non per forza simpatica, in mezzo a una feroce lotta mascolina tra pubblico ministero e avvocato difensore, tra marito morto e figlio cieco. Se dobbiamo guastare la festa, lo facciamo solo per far notare simbologie di scrittura un po’ facili (il bambino ipovedente è il personaggio più meccanico) e un’umiltà di regia che non per forza suona sempre come la scelta migliore. Ma sarebbe cocciuto eccederne i piccoli limiti.

SAW X

Per ritornare sui passi della saga (già comatosa da tempo) ci voleva qualche scossa. L’idea è far tornare l’Enigmista in un episodio collocato nel passato e connetterlo ai cattivi succedanei grazie a qualche sorpresa finale. Ma soprattutto attraverso una storia meno prevedibile, dove la vendetta scaturisce da un torto feroce, che quasi quasi sembra giustificare (l’horror Usa sta andando sempre più a destra) le torture raccapriccianti. Queste in verità sono il vero attrattore, in una corsa al grand guignol che sfiora nuove vette, almeno nel mainstream. Ogni tanto sembra quasi una “camera delle meraviglie” anatomica, un cabinet finalmente consapevole della filosofia dell’orrore. Ma passa subito, e tutto torna rozzo come sempre.

LA CADUTA DELLA CASA USHER

Ennesima conferma per Mike Flanagan: le sue carte migliori sono in scrittura. Anche questa epopea dell’avidità (non travestita da horror, caso mai il contrario) è piena di finezze. Non si tratta solo dell’idea riuscita di antologizzare tanti racconti di Poe attraverso la gestione orizzontale di un contenitore verticale (modernizzato), ma proprio di personaggi sinuosi, particolari, controversi, credibili. E se qualcuno pensa che lo showrunner abbia chiesto troppo, ci si ricordi dello stato dell’horror seriale contemporaneo prima di fare gli schizzinosi. Il cast, in buona parte ben noto ai flanaganiani, fa il resto con convinzione.

IL GRANDE LEBOWSKI

Un quarto di secolo per uno dei titoli più celebrati del cinema americano contemporaneo e dell’intera carriera dei Coen. E bisogna dire che regge a ogni revisione, anche perché tutte le questioni di postmodernità e mix di generi, poste all’epoca dalla critica, oggi sono meno centrali e lasciano spazio alla struggente e tragicomica epopea dei falliti, degli inetti e dei sinceri che ne ha decretato il vero successo. E Dude si conferma sempre di più antidoto all’ansia moderna, che negli anni Novanta stava alla finestra pronta a divorarci nello spaventoso nuovo secolo di terrore, guerre, pandemie, crisi economiche. Un meccanismo praticamente perfetto, forse l’ultima commedia possibile del secolo breve.

CHE COSA VEDIAMO QUANDO GUARDIAMO STREAMING

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

MACBETH

Macbeth. La recensione del film di Joel Coen su Apple Tv+

C’era molta curiosità per il primo film di Joel Coen senza il fratello, e molta sorpresa per la trasposizione shakespeariana lontana dalla letteratura suburbana dei due autori. Sarebbe sciocco considerare l’esangue involuzione di questo Macbeth come un problema di dimezzamento della creatività. Fatto sta che – per quante letture autoriali sottili si possano fare – l’universo Coen è qui irriconoscibile (ma non sarebbe di per sé un problema) e soprattutto deludente. Che cosa ci fa Joel Coen con una fotografia di Bruno Delbonnel che cita scolasticamente Welles, Dreyer e Bergman? Che cosa ci fa Denzel Washington, completamente fuori set, nei panni del re? Che interesse abbiamo per un’operazione testuale al tempo stesso esasperata, indie, low budget, offerta come astuto fiore all’occhiello cinefilo della piattaforma più in difficoltà di tutte (Apple Tv+)? Stranamente, il Macbeth anziano di Coen, con una Lady quanto mai indecifrabile e contraddittoria, manca di vera brama, e senza brama la tragedia non esiste, o viene semplicemente verbalizzata, come in questo caso. Shakespeare è una trappola ideologica prima che drammaturgica, perché interroga il cinema guardandolo dritto negli occhi a partire dal teatro. Di fronte al Macbeth non puoi mentire: o muori d’amore per lui o muori artisticamente decapitato.

THE TENDER BAR

The Tender Bar Recensione: un film ispirato con un grande Ben Affleck

“Il cinema medio ormai va su piattaforma” è una delle frasi più ricorrenti tra addetti al settore. Può essere, anche se poi bisogna intendersi sulla categoria. Ecco sicuramente The Tender Bar è cinema medio: un racconto malinconico e ironico, con una storia di vita particolare e al contempo universale, con un coming-of-age e alcuni attori importanti sullo sfondo, un rapporto simpatico con la letteratura americana e con la rappresentazione sociale, una struttura cronologicamente ricca ma non complicata, e nessuno che si fa male veramente. Certo, Clooney un tempo aveva altre ambizioni. Certo, la cinefilia potrebbe distruggere il film e preferirgliene un altro simile ma più rozzo e vivo (Elegia americana di Ron Howard). Tutto vero ma alla fine The Tender Bar mantiene quel che promette e non è ben chiaro perché gli si dovrebbe chiedere di più. Un giorno capiremo che le nostre aspettative sul cinema in streaming vano ricalibrate dal punto di vista antropologico.

WHAT DO WE SEE WHEN WE LOOK AT THE SKY?

What Do We See When We Look At The Sky? - Cinematografo

MUBI prosegue nel suo scavo del cinema d’autore non distribuito (e nel frattempo sta costruendo una library d’essai molto ricca: le ambizioni si sono alzate). Quello di Alexandre Koberidze, georgiano, è un film che parla la lingua del cinema internazionale da festival e mescola fiaba, attitudine documentaria, racconto surreale, idioletto locale e straniamento beffardo. Si tratta del colpo di fulmine tra due sconosciuti che per magia cambiano aspetto e non si riconoscono più, inseguendosi inconsapevoli per il resto del film. In mezzo succede tutto e niente, tra parodia rohmeriana e bizzarre escursioni calcistiche, musiche pop incoerenti e voce narrante testardamente monotona, digressioni di ogni tipo e gag stralunate. A essere pressapochisti, sentendo dire Georgia, il cinefilo affermerebbe subito che Ioseliani aleggia, ma in verità non è mica tanto vero. La fatica a descrivere quel che accade è anche un po’ la fatica di guardarlo: sembra che Koberidze insista a farci capire che è un film radicalmente leggero ma alla lunga sortisce un effetto un po’ estenuante. Senza nulla togliere al riconoscimento della libertà narrativa e poetica.

DOPESICK

Quando escono gli episodi di Dopesick su Disney+?

A proposito di cinema che ormai va su piattaforma. Questa è una serie TV reperibile su Disney+ ma di fatto è una serializzazione del cinema di denuncia civile di cui The Post o Il caso Spotlight erano gli ultimi strenui difensori. La cosa interessante di Dopesick è che, raccontando di un orribile e cinico comportamento di un’azienda farmaceutica quasi dinastica nel commercializzare un oppioide pericolosissimo, sembra vellicare un po’ tutti i pubblici. Da una parte c’è il ricordo della Hollywood liberal dagli anni Sessanta fino a Erin Brockovich, ma dall’altra (bisogna ammetterlo) risuonano sinistre carezze verso la paranoia no vax e anti-Pharma. O siamo noi sì-vax che ci siamo ormai persi nel difendere la razionalità scientifica e vediamo dappertutto messaggi ambigui? Bella domanda. Comunque la serie, in parte diretta dal veterano Barry Levinson, è old style, solidissima, recitata da gente con le facce giuste (in particolare Michael Keaton e Rosario Dawson), e difficile da abbandonare una volta cominciata.

4 META’

4 metà, la recensione del nuovo film romcom italiano di Netflix

Intendiamoci subito. Chi sta facendo film italiani per le piattaforme (Netflix in questo caso) sa dove sta andando. Questa innocua commedia sentimentale, dotata di uno sliding doors talmente annacquato da far sembrare la struttura di Supereroi di Genovese un mix tra Nolan e Resnais, ci potrebbe apparire un tappabuchi buttato lì senza convinzione. E invece è un film più visto di quello di Sorrentino, sia in Italia sia all’estero. D’altra parte pochi sanno che il titolo italiano più visto nel mondo nel 2021 è Yara di Marco Tullio Giordana, quasi ignorato dalla nostra critica. Quindi Alessio Federici e Cattleya hanno fatto bene i loro calcoli, visto che 4 metà ha già ottenuto 12 milioni di ore viste ed è presente nelle top ten di dieci Paesi, per la precisione (oltre all’Italia, in cui è terzo), Croazia, Grecia, Polonia, Portogallo, Repubblica Serba, Spagna, Argentina, Costa Rica e Uruguay (rubo i dati all’amico Robert Bernocchi su Screenweek). Come analizzare questo film se non in senso industriale? Occhio a Matilde Gioli (già nota per la fiction Doc) e Ilenia Pastorelli che potrebbero aver trovato un loro habitat divistico.