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Tag: Leonardo Fasoli

DI MOSTRI, CREATURE E DELITTI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. Questa volta ci addentriamo in alcune produzioni molto oscure dello streaming di queste settimane.

FRANKENSTEIN

Il problema dei film su Frankensitein non sta nella loro numerosità (o non del tutto), e neppure nella difficoltà ad evitare l’effetto-parodia di Mel Brooks (spartiacque decisivo). Il vero limite è che le metafore innescate dal “mostro” sono ormai ovvie e risapute; trasformarle in qualcos’altro si dimostra sempre complicatissimo. Del Toro imposta un racconto attuale, dove Victor è un privilegiato che sfrutta le guerre e la carne da cannone per i suoi fini morbosi, come fosse un Musk ante litteram. Poi però la suggestione si inceppa, e la “presa di parola” della Creatura, con il punto di vista narrativo, rinuncia al politico per il patetico, cancellando involontariamente il ritratto del “fascio-scienziato”. Si salva una certa inventiva gore. Molto meno il barocco di Del Toro, depotenziato dall’estetica streaming.

IL MOSTRO

Mostri più reali, quelli (al plurale?) di Firenze. Stefano Sollima decostruisce tutte le attese (e ottiene musi lunghi più che applausi) “mostrificando” l’Italia intera. Si stava meglio nella buona vecchia nazione pre-social media e pre-populismo? Per nulla: un Paese violento, guardone, arcaico, sessuofobo, misogino, dove i comportamenti dentro quattro mura o in piazza erano solo l’anticamera di una storia orribile e maniacale. Nessun attore famoso, un “presepe” visivo che viene insanguinato ad arte, un puzzle che si compone piano piano, di punto di vista in punto di vista (in attesa di una prossima stagione). Forse con Sollima e Mezzapesa stiamo trovando il modo di reinventare a modo nostro il genere true crime.

MONSTER – LA STORIA DI ED GEIN

Complementare la scelta di Ian Brennan (e del “brand” Ryan Murphy) su un mostro altrettanto letale. Qui il serial killer archetipico viene raccontato dall’interno, senza che ci sia il minimo dubbio sulla sua identità. La morbosità anatomica giunge a livelli forse inediti per Netflix, mentre lo spettatore oscilla tra (molti) dubbi etici e ammirazione per l’affresco da incubo. Sebbene non convincano né le tesi di Ed Gein come prodotto dell’America oscurantista, né quella di Ed Gein come icona pop per un pubblico affamato di orrori (una specie di meta-discorso sullo spettatore del true crime), entrambe sono intriganti. E quel dopo-guerra USA sottratto alla caramellosa rappresentazione nostalgica per farne uscire l’anima nera, diffusissima, non è poi così frequente da vedere.

GOOD BOY

No, non è la soggettiva di un cane; è il punto di vista di un cane (attraverso un misto di semi-soggettive e oggettive, primi piani e steadicam a precedere o seguire). In ogni caso, una scelta inedita per l’horror, sempre in cerca di approcci sorprendenti al dispositivo, come la POV-mania di qualche tempo fa o la soggettiva dello spettro in Presence. Interessante, in questo film distribuito direttamente in streaming, la sfida di farci negoziare tra ciò che sappiamo dei cani e ciò che crediamo di sapere dell’animalità. Anche perché il finale, oltre a colpire, chiede di riprocessare tutto ciò che abbiamo visto. Non solo per spiegazione narrativa ma proprio perché smonta la presunzione specista del nostro sguardo.

TASK

Sarà forse esagerato fare politique des auteurs su Brad Ingelsby, ma con Omicidio a Easttown e questo Task (da lui ideati), più la sceneggiatura dell’altrettanto recente The Lost Bus, si intravede una linea ben precisa: lavoro sui generi che non rinuncia a una profonda descrizione di piccole comunità e nuclei famigliari. Qui, complice un Mark Ruffalo splendidamente appesantito e affaticato, il dato noir (omicidi che hanno stravolto i sopravvissuti, motociclisti criminali, faide e vendette) si stempera nell’umanesimo che già aleggiava nella serie con Kate Winslet – anche se qui forse manca un personaggio del suo carisma. Tanto basta, comunque, a confermare tuttora HBO come habitat naturale delle mini-serie di prestigio fatte bene.

A ZONZO TRA LE SERIE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

AFTER LIFE

After Life 3: il finale dolceamaro della serie di Ricky Gervais

Non è facilissimo giudicare After Life alla fine delle tre stagioni. Ogni tanto sensazionale nell’affrontare il lutto da ogni angolazione psicologica, ogni tanto esilarante per come spazza via la retorica, ogni tanto insistente e quasi snervante nell’evocare un rapporto di coppia di perfezione stucchevole, ogni tanto girato in modo tanto sciatto da lasciare a bocca aperta, ogni tanto aperto a un’osservazione minuta di solitudini quali il cinema d’autore non riesce più a restituire, ogni tanto volgare fino al disgusto e gratuito fino alla noia. Bisogna però dire che ogni nuova ricollocazione gervaisiana nel mondo dell’audiovisivo risulta stimolate e che forse After Life – con i suoi pochi episodi e poche ore – è un esempio di come si lavora su un habitat quale Netflix attraverso il rapporto tra celebrity comica e letteratura di provincia (di una provincia tanto folk quanto universale). Scopriremo solo più avanti se questo progetto, e soprattutto questa galleria di personaggi, avranno superato la prova del tempo.

SUCCESSION

Critics' Choice Awards 2022: ecco tutte le nomination

La terza stagione dell’amatissima serie americana riparte sostanzialmente dalla fine della seconda e osserva con sadismo più gaudente che mai gli spasmi della dinastia Roy e la frenetica ricombinazione delle alleanze fratricide o patricide. Gli ingredienti sono i soliti: dialoghi basati principalmente su metafore spesso deliranti; macchina a spalla che entra nella mischia ed esalta la dimensione polifonica di ambienti spesso affollati di persone che si parlano addosso; analisi del capitalismo globale attraverso gli orrori del rapporto media/finanza; psicanalisi ironica di una famiglia attraversata da complessi tragicomici. Questa terza stagione non è apparsa particolarmente “progressiva” rispetto alle prime due – la seconda difficilmente verrà eguagliata – e si limita a ripetere i suddetti elementi gestendoli in modo sempre piacevole ma anche senza particolari sorprese (e con un cliffhanger finale piuttosto prevedibile per chi ormai conosce i colpi di scena della serie). Spiccano gli episodi della festa di compleanno e quelli in Italia, concepiti non a caso in maniera evidentemente più compatta.

A CASA TUTTI BENE

A casa tutti bene, la serie di Gabriele Muccino indaga dolori e conflitti  della famiglia | Vanity Fair Italia

E se a Muccino le serie facessero bene? Dobbiamo intenderci. Chi scrive è allergico al suo cinema, pur riconoscendogli uno statuto di autore – lo merita chiunque costruisca il suo universo riconoscibile, e Muccino lo possiede in tutto e per tutto. Ma l’idea di questa espansione del suo film più esagerato porta a un risultato di hardcore mucciniano che fa scattare l’ormai celeberrimo guilty pleasure. Con il solito ricorso massiccio al montaggio parallelo e alla ritmica esasperata, e a vicende che via via strangolano i personaggi e li intrecciano al reciproco destino, Muccino aggiunge anche un pizzico di crime e si diverte a gettare nel calderone un cast molto affiatato (forse ben consapevole di doversi lanciare apertamente nel kitsch). Barbara Petronio, brillante ed esperta scrittrice di serialità, è il collante del Muccino-Universe in questa operazione di Sky, che finisce senza finire in vista di una seconda stagione già concepita. Ovviamente ci sono incongruenze, cattivo gusto, momenti cringe, stereotipi vari (quelli femminili, poi….), ma guardandolo con un po’ di ironia e una birra in mano ci si diverte.

INCASTRATI

Il debutto seriale di Ficarra e Picone, "Incastrati" in un crime che diverte

Peccato. Ficarra e Picone si devono essere quasi spaventati della troppa “cattiveria” del loro film migliore – L’ora legale – e hanno scelto strade più famigliari (nel senso del segmento family oltre che della loro comfort zone). Già la triste svolta per grandi e piccini di Il primo Natale aveva convinto il duo a suon di milioni di incasso. Ora ci troviamo a metà strada con una serie di pochi e brevi episodi, quasi un film allungato, dove le gag sono talmente diluite da rischiare il principio omeopatico. Nella storia dei due signor nessuno che finiscono in un meccanismo criminoso per il quale sono ovviamente inadeguati si possono intuire alcune potenzialità satiriche sulla Sicilia, sull’inestirpabilità della mafia e sugli stereotipi patriarcali, ma ogni tema è sviluppato con una tale stanchezza narrativa da fiaccare i buoni propositi. Si vede chiaramente che i due non sanno nulla di serialità, senza che l’apporto in sede di scrittura degli ormai onnipresenti Fasoli e Ravagli cambi molto la situazione. Netflix è un cestone, mi pare che – algoritmo o meno – ogni sforzo di reperire una coerenza sul prodotto italiano sia al momento vano.

NON MI LASCIARE

Dov'è stata girata Non mi lasciare, le location della serie con Vittoria  Puccini ambientata a Venezia

Discorso generale: la Rai, e Rai Uno in particolare, sta continuando a fare le scelte giuste sulle serie (o se preferite fiction, ma ormai la distinzione terminologica non ha senso, tanto più che il prodotto italiano delle piattaforme, vedi Petra, si sta “raizzando”). Se La sposa ha saputo, con qualche diabolico cinismo, declinare la starità di Serena Rossi in una storia da melodramma d’appendice con tanto di stereotipi regionali usati con sagacia, Non mi lasciare lavora invece sul volto/personaggio sempre più sofferto di Vittoria Puccini. Si tratta di un crime su temi piuttosto cupi (riecco Fasoli/Ravagli) dove convivono elementi quasi fincheriani e pacchiane soluzioni televisive da prima serata, con il plus di una Venezia sfruttata in lungo e in largo come co-protagonista: non sarà Andrea Segre o Yuri Ancarani, ma non fa male (ed è pur sempre Rai Uno).