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Tag: Ludovico Bessegato

QUESTA NON È VENEZIA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

MAXXXINE

La conclusione della trilogia avviene in forma di trip cinefilo e videofilo intorno agli anni Ottanta, con un tono a metà tra Bret Easton Ellis e Ryan Murphy. Decisamente meno affascinante degli altri due, si sostiene attraverso il personaggio di Maxine e il magnetismo “moccioso” di Mia Goth, vero, corporeo punto di equilibrio di tutta l’operazione. Non bisogna dare troppo peso alle citazioni (da Schrader a Polanski passando per Hitchcock), o piuttosto considerarle parte di quell’atteggiamento postumo del “post(u)moderno” recente, nel quale non ci sono più relazioni dirette alla storia del cinema ma evocazioni archivistiche di un passato ridotto a set turistico – come qui la casa di Psyco.

TRILOGIA DI TI WEST

E qui ci riferiamo invece al bilancio dell’intera trilogia. Riuscita, in generale, anche solo per l’idea di una “collazione” piena di rimandi e reticoli interni (bene vederli tutti in fila) in forma d’autore. Ti West è troppo scanzonato e appassionato del genere per adottare le linee “arty” del prestige horror A24 e quindi procede a un lavoro sul canone che – se preso sul serio – farebbe acqua ma che – se preso comprendendo il grado di masquerade carnevalesca emulativa – funziona benissimo. Mia Goth è corpo assoluto e co-autrice di un doppio ruolo brutale, ma ciò che conta (pur senza eccedere in sociologismi) è il triangolo (ehm) sesso/morte/spettacolo che West considera spettrometro della sua visione dell’America rurale e urbana. Pearl si distingue per originalità e compattezza dell’american gothic ma X è il capitolo più genuinamente e spassosamente gore/core.

L’INNOCENZA

Di Kore’eda bisognerà pur cominciare a dire che stiamo assistendo in diretta alla costruzione e conferma di un maestro del cinema contemporaneo in grado di rivaleggiare con i classici. Di straordinario (nel senso proprio di fuori dalla consuetudine del cinema d’autore) ci sono domande umanistiche ed esistenziali poste nella maniera più alta e più giusta, senza dimenticare di interrogare il mezzo cinematografico e le sue forme. Facile a dirsi. Ma Kore’eda è tra i pochi a sapere come fare: per esempio arrischiare una narrazione “a meccanismo” e poi erodere ogni schematismo attraverso la flagranza della messa in scena e la forza contraddittoria dei personaggi (in tutt’altra direzione, anche Farhadi fa la stessa cosa, lambendo la manipolazione narrativa e svuotandola dall’interno). Finale struggente che sarà difficile dimenticare.

INVELLE

Anni di lavoro, di disegni, di cura maniacale, di tratto, di forma, di segno, di limatura, per arrivare a uno dei più grandi film italiani (non solo di animazione) di questi anni. Simone Massi capitalizza la sua intera, gloriosa carriera nel modo giusto e trova il miracolo di un lungometraggio che ha molto da dire della dinamica italiana tra mondo contadino e storia del dopoguerra e tutto da dire quanto a innovazione stilistica: è qui, infatti, che – senza temere di essere impegnativo per lo spettatore – Massi immerge il suo disegno b/n in un flusso inarrestabile che sembra far gemmare una forma da un’altra, dal dettaglio al totale, dal piccolo al grande e viceversa, senza un momento di stasi, creando una sorta di panta rei che sinceramente non avevamo mai visto (immagini che sorgono e sgorgano l’una dall’altra, sconfinando in quella successiva, negando la fatica stessa del lavorarle separatamente; come a dire che questo è il cinema nella sua natura essenziale).

IT ENDS WITH US

Se proprio, per accogliere la natura dei tempi che corrono, dobbiamo rispettosamente accettare che la contemporaneità abbia bisogno di racconti didascalici (Barbie, Povere creature!, C’è ancora domani), almeno pretendiamo che siano interessanti, come i tre citati. Qui no. Inoltre, c’è un problema allo stato pre-interpretativo: si può procedere a interpretazione critica se i livelli minimali di presentabilità di un prodotto in sala sono irricevibili (dalla sceneggiatura alla recitazione, dai totali ai primi piani, dal montaggio al suono: tutto è amatoriale)? Fatta questa premessa, il film di Justin Baldoni è un classico caso per cui il compitino contro la mascolinità tossica è gestito in maniera così grossolana e controproducente (vedi il trauma infantile del marito violento: ma stiamo scherzando?) che entra nella lista dei titoli da sconsigliare alle scuole e da vietare ai giovani futuri adulti.

BLINK TWICE

Didascalismo parte due. Ma un po’ meglio. Zoe Kravtiz esordisce dietro la macchina da presa con un apologo horror contro il patriarcato uber-capitalista, raccontando di un’isola edenica dove le donne “dimenticano” le violenze subite giorno dopo giorno. Chiara come il sole la metafora sulla cancel culture (ed è la cosa migliore), tanto quanto l’attacco alla corruzione tossica del maschio bianco ricco (e qui le cose sono decisamente più banali). Si aggiunge una confusione stilistica evidente e un caotica frenesia di toni (dal raccapriccio all’umoristico). Comunque meglio errori vitalistici e di eccesso piuttosto che il moralismo soap a tavolino.

LA VITA ACCANTO

La vita accanto - Film (2024) - MYmovies.it

Pluri-autorialità in conflitto. Marco Tullio Giordana, esperto in racconti dal forte intento civile e dall’afflato storico, si ritrova a gestire un dramma psicanalitico famigliare sceneggiato insieme a Bellocchio. Di conseguenza, per tutto il film, lo spettatore scopre via via la coerenza con la filmografia bellocchiana ma nota l’assenza dello stile astratto e simbolico del regista emiliano – che avrebbe scosso il pesante allegorismo del racconto per trasformarlo in un presepe famigliare da incubo. Solo la generosità delle interpreti (sugli uomini meglio tacere, persino Paolo Pierobon soccombe) riesce ad evitare lo scult dietro l’angolo.

THE BEAR 3

Non facile costruire un’intera stagione sulla stasi. Volontariamente, cocciutamente, Christopher Stoner e il team creativo decidono per un’annata meta-narrativa dove succede pochissimo e il materiale stesso rimane congelato come il protagonista Carmy. Il passato si fa ossessione, il futuro non c’è (perché non c’è nel capitalismo ansiogeno rappresentato dalla ristorazione), e il presente è un labirinto di schegge, come al solito esemplarmente raccontato dal montaggio atomizzato e dagli ingredienti che vanno provati e riprovati. Evidente, ma piacevole, il parallelismo tra cucina e set, tra piatto e sceneggiatura. E comunque, quando si presenta un episodio 6 come quello che trovate in questa terza stagione, non si può che voler bene a The Bear.

PRISMA 2

Se c’è uno showrunner che non ha nulla da invidiare ai migliori colleghi statunitensi e britannici, questo è Ludovico Bessegato. E se Skam sta cominciando a mostrare la corda per aver voluto a ogni stagione individuare un problema teen specifico, Prisma ne è l’evoluzione più convincente. In questa seconda stagione, Bessegato – dopo aver posto le basi – si sente libero di fare quello che vuole, e srotola uno stile-acquario, immersivo, dove avvenimenti, voci, volti, amori, litigi, tabù, vengono armonizzati in un potente flusso formale e musicale (per una volta, ottime scelte, non da playlist algoritmica). Al fondo, rimane comunque il segreto vincente dei primi Skam: questi ragazzi hanno qualcosa da dire, scelte da fare, identità da scoprire, e tutta la vita davanti, al contrario dei cinquantenni stanchi e imborghesiti del cinema italiano, di cui non ci frega quasi mai un tubo.

HOUSE OF THE DRAGON 2

Siamo certi che non sia facile creare progetti paralleli a partire da una grande narrazione primaria e archetipica come quella del Trono di spade. Bisogna infatti trovare un equilibrio instabile tra fan service e innovazione. Equilibrio che nemmeno questa seconda stagione trova (anzi, aveva più vivacità intellettuale la prima). Troppo parassitario il rapporto narrativo e iconografico con il capostipite e troppo legnose le contrapposizioni tra casate e pretendenti per raggiungere la temperatura epica indispensabile alla riuscita della saga. E, pur essendo una serie ad alto budget, permane la mediocrità degli effetti speciali quando ci entrano in scena i draghi, questione irrisolta del fantasy televisivo.

RITORNI, MALINCONIE, QUADRI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

AMSTERDAM

Flop conclamato e vittima di uno dei classici shitstorm di questi anni Amsterdam è tutt’altro che pessimo come lo si dipinge. Seguendo la sua tipica poetica dell’outsider scombinato, David O. Russell alza la posta dopo anni di silenzio: Storia, fascismo, guerre mondiali viste con l’occhio (di vetro) di un medico strampalato e di un trio molto nouvelle vague che attraversa Europa e America. Tra Kurt Vonnegut e Wes Anderson, un’installazione survoltata e compiaciuta alcuni con sprazzi di gran cinema e persino di gentilezza sentimentale.

IO SONO L’ABISSO

Altro flop conclamato ma con minor ingiustizia. Certo, Donato Carrisi non si smentisce e conferma il metodo fatto di valori tecnici raffinati (con elementi fincheriani) e costruzione narrativa stratificata (questa volta a tracce parallele che lentamente si incontrano), ma le ambizioni di discorso sul Male sono puerili. Inoltre, l’assenza di star esotiche (Jean Reno, Dustin Hoffman) o italiche (Toni Servillo) dei film precedenti sottrae fascino all’operazione.

SANTA LUCIA

Esordio di Marco Chiappetta, prodotto dai Teatri Uniti, Santa Lucia utilizza lo schema del nostos (molto caro a Napoli, vedi anche Nostalgia) per una meditazione dolorosa e piena di grazia sullo smarrimento delle radici. La cecità di un grandioso Renato Carpentieri spalanca il flusso dell’interiorità, che con le svolte narrative diviene sempre più teatro mentale. Qualche inciampo e alcune ridondanze iniziali non impediscono allo struggimento di imporsi in una luce metallica e mai folcloristicamente partenopea.

VORTEX

Su MUBI finalmente l’atteso split movie di Gaspar Noé, che si sta rivelando un autore sempre più significativo, sgomberando il campo dalla narrazione del Pierino sadico che lo circondava. Due personaggi-memoria del cinema, una maman al tramonto senile e un maestro degli orrori inchiodato da un cuore malato, si muovono in una casa-prigione. Ricordi e memorie sono ormai oggetti, la mente vacilla e le vanità umane se ne vanno col tempo, imprigionate dallo schermo scisso, che da impietoso si fa via via commosso.

PRISMA

Bessegato, ricco della fama di autore/adattatore (magnifico, peraltro) di SKAM, costruisce il suo universo personale su Prime Video, non lontano dal precedente. Ma stavolta ragazzi sono una versione teen di Van Sant, mentre Latina diventa una provincia “indie” dove la trap si mescola all’esclusione sociale, ai problemi morali e alla fluidità sessuale. Ottimo il protagonista gemellare, playlist da applausi in colonna, camera work articolatissimo, scrittura sensibile e il gioco è di nuovo fatto.

CASCO D’ORO

Torna in sala, restaurato, il capolavoro di Becker. Meno conosciuto di quanto si pensa, il racconto di sfida alla legge e di amore contrastato, di anarchia metropolitana fine ‘800 e di seduzione ambigua, colpisce ancora, forse principalmente per il fulgore stilistico. I “quadri” parigini contengono tutti sentimenti che servono, e se anche vi annoiaste, il finale vale mezza storia del cinema. Per gli amanti di Serge Reggiani, poi, è una festa attoriale.

UNA DONNA SPOSATA

E un altro restauro circola in questi giorni, per ricordare Maestro Godard. Il suo film più schematico, nel senso filosofico che dava l’autore all’uno più uno (che non fa mai due) come progetto stilistico. Le 24 ore di Charlotte sono oscillazioni, monologhi, fuori campo estremi, movimenti di macchina chirurgici, rigore puro mescolato alla casualità. Era il 1964, dopo Il disprezzo e prima di alcuni esperimenti di pop decostruito, da Pierrot alla Cinese.