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Tag: Matteo Zoppis

AMORI FATALI E ORIZZONTI PERDUTI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

TOGETHER

Gli horror con le idee chiare sono meglio di quelli con le idee confuse. Ovvio. Il rischio dei primi è quello semmai di offrire letture troppo didascaliche (che era, a parere di chi scrive, il limite maggiore di The Substance). Together riesce a evitare le medesime trappole, e a seminare interpretazioni di vario tipo: è una metafora dell’amore tossico? è una commedia del ri-matrimonio bagnata nel cinema di Yuzna e Cronenberg? è un’anti-commedia che ci invita a scappare dai rapporti prima che degenerino? O è un folk horror sulla provincia boschiva Usa e le sue infinite pieghe irrazionali? Sebbene un po’ derivativo dal punto di vista iconografico ed estetico, Together scava in quella trincea ibrida tra elevated horror e mainstream horror che forse sta diventando la terza via più interessante del momento.

TESTA O CROCE?

Progetto ambizioso: un western italiano che scavalla la tradizione leoniana, recupera invece un (bel) po’ di Peckinpah e di rivoluzionari messicani, celebra la Maremma pistolera e i butteri da prateria nell’ “ovest italiano”, zigzaga tra ironia e surrealtà. Rigo de Righi e Zoppis (complice un curioso Buffalo Bill interpretato dal sardonico John C. Reilly) realizzano un UFO cinematografico, nel quale si dimena il sempre generoso Alessandro Borghi (che sarebbe stato benissimo nel cinema di Sollima o Corbucci). Unico, vero, non secondario ostacolo: si gode poco. Un film così dovrebbe stimolare un piacere continuo, lasciare il genere lobero di scatenare le sue passioni; eros e pallottole sembrarci irresistibili. Invece tutto appare accademico e stranamente ingessato, anche – purtroppo – la protagonista Nadia Tereszkiewicz, cui non si crede proprio mai.

FERDINANDO SCIANNA – IL FOTOGRAFO DELL’OMBRA

Chiunque abbia sentito parlare Scianna, se ha resistito allo stordimento affabulatorio, ne è uscito al tempo stesso rigenerato e ammirato. A oltre 80 anni, questo uomo-racconto è in grado di operare ottime riflessioni esistenziali e meta-critiche su sé stesso e sull’arte fotografica. Bene ha fatto Robert Andò, a parte la civetteria di un b/n molto ricercato, a lasciare l’amico libero di parlare senza freni, per poi lavorare al montaggio. Contribuisce alla riuscita del documentario (molto semplice) la chiave della sicilianità, che pian piano diventa una sorta di fil rouge che parte da Pirandello, attraversa Sciascia, trafigge lo stesso Scianna, tocca Dolce & Gabbana (ebbene sì), e arriva a Tornatore. Un pezzetto di arte italiana raccontato con gusto e lasciato ai posteri.

LE CITTÀ DI PIANURA

Si parla di modello-Jarmusch, o Kaurismaki, per questa provincia veneta stonata e alcolica, ruvida e malinconica. Ma il modello è ancora una volta la commedia all’italiana (se vogliamo, una commedia contemporanea post-Mazzacurati). Ci piace, di Sossai, che sappia tenere l’equilibrio tra un arco narrativo in verità organizzatissimo – è una specie di Il sorpasso senza tragedia finale – e un’apparenza svagata, strampalata, tipo “buona la prima” (grana Kodak a garanzia). E le annotazioni sparse sull’Italia, alcune esilaranti e altri disperanti, funzionano tutte, anche perché il paesaggio per una volta è interrogato dai personaggi e non dal regista che lo contempla. Attori di precisione antropologica assoluta. E se dovessimo trovargli un modello culturale ed estetico, lo scopriremmo nella musica: questo è un film post-rock (vedi colonna sonora), e specificamente il post-rock anni Novanta.

L’ISOLA DI ANDREA

Per i suoi 85 anni, l’ostinato Antonio Capuano torna all’infanzia negata. Questa volta abbandona il teatro di frontiera della periferia urbana napoletana e si concentra sui più asettici spazi borghesi di una coppia che si sta separando. A rimetterci, manco a dirlo, il figlio piccolo, diverso però da altri simili del “cinema del divorzio” e dotato di un’umanità, di una resilienza e di una fantasia che lo distinguono egregiamente dagli altri. Per il resto, l’autore segue rigorosamente una serie di incontri con i mediatori civili, creando un set di riferimento per il dramma dell’elaborazione della fine. Tutto è nitido, non scolastico. E sebbene la recitazione a volte fatichi a trovare l’equilibrio tra questa nettezza formale e la mimesi psicologica, L’isola di Andrea conferma la cocciuta intelligenza emotiva di Capuano.

THE LOST BUS

Per chi è innervosito da Paul Greengrass (con il suo stile fatto di zoomate e schiaffi continui, macchina a mano tesa a occultare il fuori campo, punti di ripresa illogici e immotivati, confusione spacciata per ritmo) The Lost Bus altro non è che la conferma della sua estetica, applicata stavolta a contenuti dimenticabili. Per gli appassionati del sotto-genere “incendi devastanti al cinema”, bisogna invece ammettere che c’è pane per i loro denti, grazie a uno sforzo scenografico imponente, a una certa suspense, e a fiamme finalmente credibili, rispetto alle orribili lingue di fuoco digitali degli ultimi tempi. Sotto sotto, pur tratto da una storia vera, si tratta di una megapuntata deluxe di un qualsiasi Chicago Fire, in cui osserviamo con simpatia il divismo ormai combusto di Matthew McConaughey e qualche timida critica sociale che non offende nessuno. E il destino da piattaforma (Apple TV+) dice molto del destino del film medio.

(AL)LA FINE DEL MONDO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DON’T LOOK UP

Don't Look Up' , il trailer finale del film Netflix con Leonardo DiCaprio,  Jennifer Lawrence e Meryl Streep | Awards Today - news, trailer,  recensioni, cinema, serie tv, oscar

Consacrazione definitiva per Adam McKay che, sebbene ormai conosciuto dai critici e da alcuni appassionati, rimane l’autore meno condiviso di questi anni. In questa ottima satira del contemporaneo, che taglia di traverso Covid ed ecologia attraverso un convincente esperimento di fantascienza comica, si conferma la ricetta del suo universo umoristico: mescolare elementi paradossali, parodistici e para-televisivi in stile Saturday Night Live senza buttare in vacca tutto e riuscendo a scrivere personaggi sfaccettati, con un loro arco di trasformazione emotiva credibile. Lo slogan “tra Dr. Stranamore e Melancholia” non è troppo lontano dal vero, anche se le cose migliori (insieme ad alcune grasse risate) sono teoriche: l’infinitamente grande di una cometa a un certo punto è visibile nel cielo e non puoi non vederlo se non decidendo di guardare per terra; il coronavirus, invece, non è visibile e – nel bene e nel male – questo cambia tutto. Al cinema e nella realtà.

NOWHERE SPECIAL

Nowhere Special - Una storia d'amore - Film (2020)

Ci vuole un certo sadismo a decidere di raccontare una storia così straziante. La conoscete tutti, quindi non sto a ripeterla. Piuttosto, in questa vicenda di malattia, dignitosa disperazione e bambini innocenti destinati a soffrire, c’è un’aria abbastanza nota ed è il lacrima movie all’italiana. Se Uberto Pasolini fosse stato meno colto e meno profondo, avrebbe probabilmente girato con un approccio da melodramma psicotronico tipo L’ultima neve di primavera o Il venditore di palloncini. Non stiamo facendo ironia, il contesto è quello ma in verso contrario, come se l’autore si chiedesse: come faccio a raffreddare questo melodramma? Ci è riuscito – per fortuna – solo in parte: vogliamo piangere al cinema, diamine! Ultima annotazione: si noti quante narrazioni sono possibili nel proletariato inglese, dalla commedia degli spogliarellisti alle tragedie dei disoccupati fino ai mélo con malattia. Altrove (da noi?) si pensa che le classi disagiate servano solo a fare denunce per dibattiti e non meritino un world building sfaccettato.

DUE DONNE – PASSING

RomaFF16 - Passing: recensione del film di Rebecca Hall

Ruth Negga è una delle attrici più sensibili e capaci della sua generazione, ed è un bene che (insieme alla quasi altrettanto efficace Tessa Thompson, che ha come unico limite qualche capriccio espressivo facciale) un film come Due donne di Rebecca Hall sia costruito sulle due performance. Sebbene le scelte metaforiche del bianco e nero (si parla di due donne nere che possono passare per bianche per il colore della pelle) e del 4:3 siano abbastanza scolastiche, la differenza la fanno altre cose. Una è il suono, il migliore uso creativo di quest’anno insieme a Il potere del cane, con una costruzione di autenticità per questo motivo intensificata. La seconda è una qualità di scrittura e di messinscena sorprendenti per un’autrice esordiente. Nulla per cui gridare al capolavoro, sia chiaro, ma al tempo stesso un racconto molto forte e credibile in mezzo a tante produzioni “anti-razziste a tavolino” che non fanno il bene di nessuno in questi anni.

RE GRANCHIO

Re Granchio al cinema: trailer, trama, cast e anticipazioni

Piccolo film italiano debitore da una parte di Werner Herzog e dall’altra di Lisandro Alonso. Cinema “panico” lo avremmo definito un tempo, con una narrazione nettamente separata in due metà. L’ora iniziale è dedicata a un antico racconto di villaggio, quasi folclorico e leggendario, che si sarebbe persino potuto mettere in scena attraverso la magia cruda di Il racconto dei racconti – ma che privilegia un naturalismo medievale di grande consapevolezza. La seconda metà diventa un viaggio misterico tra il western e Aguirre dove alla razionalità che via via sfuma e scema si affianca uno stile sempre più visionario. Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis sanno quello che fanno e lo fanno con assoluto controllo formale. Qualcuno direbbe “anche troppo”, provando a spiegarsi perché – a fronte di tanti valori estetici così oggettivi – qualcosa resista al nostro entusiasmo e si frapponga a un’adesione più convinta. Ci rifletteremo.

THE INNOCENTS

Cannes 2021. The Innocents – Stanze di Cinema

Visto al Noir in Festival (con la speranza di trovarlo distribuito prima o dopo) un buon horror della tradizione “nidiate malefiche” ovvero bambini molto pericolosi. La novità è che, pur trattandosi di telepatia e telecinesi (Stephen King) nonché di superpoteri in mano a minorenni sadici (Chronicle), il trattamento visivo e narrativo di Eskil Vogt regge grazie a una rappresentazione architettonica e visuale degna di nota. Se sentite aria di Trier (Joachim) e di Thelma non sentitevi in colpa come se trovaste stereotipi norvegesi ovunque: Vogt ne è stato lo sceneggiatore. Come Trier, anche Vogt per qualche ragione non affonda mai il colpo fino a fare davvero male ma almeno un paio di sequenze, compresa la battaglia finale nel parco in pieno sole (fatta senza bisogno di altro che di occhiatacce tra bambini e suoni sinistri) vale la visione.