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Tag: Michel Franco

CINEMA E CORPI TRA SPORT E SET

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

THE SMASHING MACHINE

Quando le cose vanno storte. Benny Safdie in solitaria aveva forse in mente una decostruzione critica di The Rock: non rovesciando l’icona ma anzi espandendone la mostruosità fisica. E minandone la sicurezza. Intorno, un freak show pre-MMA che non può non ricordare The Wrestler, ma senza finzioni. Il risultato è sconcertante: oltre a ellissi e reticenze di trama poco chiare (a cominciare dal problematico rapporto sentimentale, inspiegabile e inspiegato), la “macchina” risulta priva di una direzione – sia essa estetica (la grana di messa in scena non è un partito preso interessante; il rapporto con la musica dimostrativo e anodino) sia essa simbolica (dovremmo capire qualcosa della società, della nazione, del corpo umano, dell’amore?). Stendiamo un velo pietoso sul finale col vero Mark Kerr mentre va a fare la spesa al supermercato: in che momento è parsa una buona idea?

IL MAESTRO

Toh, Il sorpasso di Risi è ancora lì che influenza il cinema italiano. Scorre sotto (meglio) in Le città di pianura e scorre sotto (peggio) in questa seconda prova in patria di Andrea Di Stefano. La storia del guascone ex tennista che (s)travolge di chiacchiere e balle la giovane promessa del tennis si trasforma in un road movie provinciale e litorale. Favino, di conseguenza, deve restare a metà tra caricatura da “mostro” (vedi i polsini sempre addosso e l’aria da Tennembaum) e malinconia da Tognazzi. Senza riuscirsi troppo: i registri performativi oscillano troppo tra il mattatore e il depresso, e lo slittamento tra i due non convince. Così come Di Stefano, pur pieno di buone intenzioni, riempie di personaggi inutili un terzo atto che nega le promesse dei primi due. E poi basta con le metafore tennistiche: cattiva letteratura.

BOBÒ

Un altro corpo, a suo modo comico e inclassificabile. Chiunque conosca il teatro di Pippo Delbono conosce Vincenzo Cannavacciuolo, in arte Bobò. Trovato in un istituto psichiatrico, accolto da Delbono e sprigionato nel suo istrionismo artistico dall’attore e regista, Bobò è diventato un simbolo. La morte di Bobò ha segnato una profonda crisi per Delbono. Ne parla – in maniera fragile, nuda, persino irrisolta – nell’ultimo spettacolo Il risveglio. E ne riparla qui, in questo canto malinconico tra documentario e performance, dove si alternano immagini di repertorio, monologhi, erranze e una voce narrante poetica, quella dell’autore. Ci ricorda quanto il Delbono cineasta non somigli a nessun altro. E quanto scarsa sia ancora la relazione tra cinema e teatro italiano nel contemporaneo.

DREAMS

Ci dobbiamo pentire di aver concesso il beneficio del dubbio a Michel Franco? A giudicare da Dreams, sì. Con una lettura triviale, si potrebbe pensare che in questa storia erotica tra una ricca filantropa e un toy boy immigrato irregolare si finisca col risultato che, alla prima ingiustizia, quest’ultimo diventa il classico messicano patriarcale e stupratore, Ma, anche volendo credere che Franco non sia così autolesionista, è difficile capire in che modo dovremmo prendere il terzo confronto (in tre film) tra la virulenza del proletariato sfruttato e il cinismo del Capitale. Con l’aggiunta di dialoghi esplicativi tra messicani precari, qualora non avessimo ancora compreso il tema di fondo.

I CENTO PASSI

Torna in sala, 25 anni dopo l’uscita, il celebre biopic di Peppino Impastato diretto da Marco Tullio Giordana. All’epoca ci parve molto retorico, probabilmente sottovalutandone l’impatto emotivo e culturale. Rivisto (negli anni e ora), rivendica il suo ruolo di capofila di una stagione del cinema d’impegno civile, e conferma Giordana come un cineasta che ha dato il meglio di sé mettendo – prima di molti altri – le mani ben dentro la storia nera della nazione. Qualche anno più tardi, Moretti, Sorrentino e Garrone hanno rovesciato nel grottesco e nel visionario il discorso sul Potere ma non per questo l’impronta dei Cento passi si è sbiadita.

MEMORIE PERDUTE E DISTOPIE DEL DESIDERIO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

DRIVE-AWAY DOLLS

Eccoli, i Garage Days Revisited di Ethan Coen. Inutile cercare la cattedrale dei fratelli qui dentro, o un’americanologia simile a quella cui siamo abituati. Coen single recupera uno script ideato insieme alla moglie (scrittrice e montatrice) Tricia Cooke, ambientata nel 1999, e si diverte a fare un film mezzo punk e mezzo indie che ha come unico interesse il piacere filmico di rinverdire una tradizione di orgogliosa serie B. Certo, la sgangherata jam session lesbica si diverte a retrodatare certe correnti culturali ma sempre col sorriso goliardico stampato in bocca. Si alternano schegge di Russ Meyer, visioni alla Kenneth Anger, liquami mentali da LSD, scorribande suburbane alla John Waters, un pizzico di Willy il Coyote, il noir e – ovviamente – stracci di Lebowski, Blood Simple e Arizona Junior. Tutto, però, sarebbe stato meno efficace senza una strepitosa Margaret Qualley, sempre più a suo agio negli Stati Uniti dai tratti isterici. 80 minuti, giustamente. Di pura rigenerazione dal basso.

MEMORY

Fa piacere il ritorno del melodramma sotto varie spoglie (vedi anche Estranei e – solo in parte – Past Lives). Michel Franco, non certo un regista timido (nel bene e nel male), si trova al suo primo vero film hollywoodiano con star (almeno Jessica Chastain) e intesse una struggente storia d’amore tra una donna abusata e un uomo in precoce stato di demenza progressiva. Mentre le tragedie si accumulano, le verità nascoste emergono, la salute peggiora, gli spettatori più scettici mollano il colpo e i cinefili “melomani” invece cominciano a godere. Lei migliore di lui (Peter Sarsgaard) che pure ha vinto a Venezia, esageratamente, la Coppa Volpi 2023.

AMERICAN FICTION

L’enorme successo di questa satira contro gli stereotipi neri portati avanti dalla stessa letteratura black – e amati principalmente da un pubblico bianco progressista accademico – sembra quasi mostrare l’esigenza di una risata liberatoria nell’epoca delle guerre culturali. Se non fosse arrivata dall’interno del mondo nero intellettuale, ovviamente sarebbe apparsa irricevibile. Detto ciò, il film è molto più complesso del previsto. Al di là dei dialoghi brillantissimi e di un cast in stato di grazia, le evoluzioni narrative non sono semplicistiche (il finale è amarissimo: la coppia non riconciliata, la scrittrice star snobbata dal protagonista sessista, il mondo del cinema in mano a registi bianchi). E tirare una satira per 100 minuti è affare complesso, perché deve trasformarsi in una commedia senza perdere il veleno. Il vero peccato è la pigrizia di regia: non era il tipo di film da virtuosismi estetici ma tutto è sacrificato alla scrittura e alla direzione degli attori.

CARACAS

I romanzi di Ermanno Rea sono esplorazioni antropologiche di Napoli. L’erranza e la dimensione memorial-saggistica sorreggono trame a volte molto esili. Vale anche per Napoli ferrovia, dove l’amicizia tra opposti (un vecchio intellettuale comunista e un uomo più giovane, fascista senza un vero perché) serve a imbastire un dialogo quasi mitico dentro il consueto contesto del nostos cui Mario Martone in Nostalgia (ancora da Rea) aveva offerto più degna trasposizione, consapevole che la chiave fosse nella rappresentazione della città sospesa tra radici ancestrali e immobiliarismo criminale. Se perdiamo tanto tempo a contestualizzare è perché di Caracas non c’è molto da dire; siamo molto dispiaciuti che un frutto autoriale di Napoli come Marco D’Amore non abbia trovato nessuno degli strumenti necessari per trasporre (e comprendere) Rea, finendo col concepire un film dagli effetti emotivi superficiali e senza un vero progetto di messa in scena.

ANCORA UN’ESTATE

Clamoroso ritorno di Catherine Breillat con una storia che inganna i pigri e acceca i meno attenti. Nella vicenda della passione sensuale che esplode tra una donna matura e il figliastro non contano (solo) le dinamiche sociali e le cornici narrative apparentemente anti-borghesi. Si tratta invece di un esperimento eccezionale di sguardo frontale e disvelante di personalità incapaci di definirsi se non attraverso l’altro. Tramite scene di sesso veritiere e inquietanti (come sempre in Breillat), seduzione e campi di forza, verità e menzogne, godimenti e pentimenti sembrano essere l’unica cosa per cui vale la pena vivere dentro una pulsione al vuoto, al niente, che soggiace all’esistenza contemporanea. E così tutto il cinema dell’amour fou francese, tendente all’omologazione e alla retorica, viene decisamente rinnovato, rigenerato e scosso come si fa con un ramo pieno di foglie secche. Il finale, come già notato da altri, è da antologia. Léa Drucker, insieme a Virginie Efira e Léa Seydoux, costituisce ormai un pantheon di corpi/star perturbanti del contemporaneo transalpino.

SULL’ADAMANT

Orso d’oro 2023, forse un po’ eccessivo, per un film comunque nobilissimo che riconferma la ricerca di Nicolas Philibert. Questa chiatta sulla Senna, vera e propria arca dei disperati, in cui fare osservazione (partecipata) del disagio psichico e della sua gamma di sensibilità è in fondo una specie di risposta documentaria al grande cinema fluviale di Epstein o Vigo. Tuttavia, qua e là si ha la sensazione che stavolta il punto di vista dell’autore resti un po’ appannato, indeciso tra una de-estetizzazione in forma di rispetto per i soggetti e un abbandono alle suggestioni narrative, personaggistiche, psicologiche che la materia suggerisce. Giusto per trovare il pelo nell’uovo, s’intende.

SPACEMAN

Difficile trovare un potenziale più irritante e molesto del progetto di questo sci fi d’autore Netflix, a metà tra retrofuturismo e steampunk in stile est-europeo. Aggiungiamoci in regia un autore di videoclip (e musicista) svedese come Johan Renck. Mettiamoci come carico un terzo atto di misticismo kubrickiano, con astronave alla deriva (e più di un contatto con Silent Running di Douglas Trumbull). Ne esce la tempesta perfetta del film hipster. E lo è. Salvo che qui a bottega non lo abbiamo affatto disprezzato, vuoi per una bellissima love story queer tra il protagonista e un ragno gigante, vuoi per l’ennesimo personaggio malinconicamente fallito di Adam Sandler, vuoi per la Cecoslovacchia ucronica che qualcosina ci dice anche sulle catastrofi del nostro infelice presente.

IMMAGINI GLOBALI DALLA TERRA ALLA LUNA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

APOLLO 10 1/2

Apollo 10 1/2: A Space Age Childhood - La recensione

Di nuovo alle prese con l’animazione al rotoscopio, l’impagabile Richard Linklater (che ancora gode di uno “scalino critico” più in basso di quel che merita) offre uno strepitoso catalogo di gioventù che si intreccia con la fantasia adolescenziale di un ragazzo che immagina di andare sulla Luna. L’intreccio sorprendente tra ucronia e nostalgia offre un impatto melanconico e umoristico di rara ispirazione, ma soprattutto la prima ora – dove lo srotolamento dei ricordi, degli oggetti, dei materiali mnestici diventa torrenziale – è grande cinema a tutti i livelli.

GLI AMORI DI SUZANNA ANDLER

Gli amori di Suzanna Andler - Film (2021) - MYmovies.it

Sul nuovo numero di Film TV (numero 16, 2022), l’amico Pietro Bianchi spiega dettagliatamente perché Benoit Jacquot è un signor cineasta. Letto tutto l’articolo, devo dargli ragione. Eppure ho fatto una enorme fatica a scalare questa montagna, pièce in unità di luogo tratta da uno scritto poi in parte ripudiato di Marguerite Duras. I tormenti, più che gli amori, di Suzanna sono tutti didascalici e i “récadrage” della messa in scena ovvii e noiosissimi, e il gioco delle parti – con sorprese – non è sorprendente. Abbiamo rimpianto La voce umana di Almodóvar.

C’MON C’MON

C'mon C'mon - Film (2021) - MYmovies.it

Qui c’è un bel problema di discorsi critico-estetici. Ovvero: questo è chiaramente un film hipster, modaiolo, furbastro, col bianco e nero fighetto, ecc ecc. Ma siamo certi che sia il giusto punto di vista? Quando diciamo che ormai il cinema “indie” è un genere, perché poi non lo giudichiamo con il metro del genere? Se nei film action ci sono gli inseguimenti e gli scontri, nel cinema “indie” c’è il bianco e nero, c’è Joaquin Phoenix, c’è la meta-riflessione sul documentario, c’è tutta questa roba qua. Quindi come “film di genere” C’mon C’mon funziona o no? Secondo me sì.

SUNDOWN

Sundown, in anteprima il trailer ufficiale del film con Tim Roth e  Charlotte Gainsbourg

Non ho ben capito perché Michel Franco sia così bersagliato. Di Nuevo Orden alcune recensioni non avevano nemmeno capito la trama della seconda parte del film, eppure era un (rozzo) esempio di pamhplet sulla simmetria del populismi dal basso e dall’alto con elementi intriganti di costruzione narrativa. Questa lenta disgregazione morale di un riccastro nella dark side di Acapulco è probabilmente un film di Ulrich Seidl senza la dimensione corporea e antropofagica del cineasta austriaco. Ma Franco continua ad essere un regista interessante e i suoi apologhi meritano una qualche riflessione.

CALIFORNIE

CALIFORNIE | Biglietti omaggio per il cinema Tibur di Roma - MovieDigger

Non ricordo un momento così ricco per il cinema italiano piccolo e piccolissimo quale quello degli ultimi anni. Anche Californie spicca in un panorama di micro-cinema di assoluto valore. La storia di una ragazza di origine marocchina, seguita dalla mdp per alcuni anni (dai 9 ai 14), in un impasto tra documentario e finzione, che per una volta è frutto di scelte lunghe e consapevoli, colpisce e commuove. Lo sbertucciato cinema del reale in verità continua a rivelarsi un caleidoscopio di progetti in cui convivono talvolta velleitarismi ma anche, come in questo caso, progetti intensi e riusciti.

UN FIGLIO

Un figlio (2019) di Mehdi Barsaoui - Recensione | Asbury Movies

La formula è quella “farhadiana” che sta diventano un modello: scelte drammatiche che mettono in conflitto il singolo e l’istituzione (o il dispositivo sociale) con svelamento progressivo di tracce oscurantiste nel vissuto dei protagonisti. Mehdi Barsaoui traspone la strategia nella Tunisia del 2011 – con tutto quel che comporta – e scolpisce un melodramma matarazziano raffreddato cui purtroppo manca proprio il coraggio di farsi fiammeggiante, rimanendo inchiodato nei moduli del cinema d’essai e del film “da discussione”. Peccato per Sami Bouajila, al solito enorme.

UNA MADRE, UNA FIGLIA

“Una madre, una figlia”, un film toccante su un legame sacro (e  indissolubile)

Scene di patriarcato in Ciad. Mahamat-Saleh Haroun racconta “femmine folli” orgogliosamente indipendenti in posti in cui sarebbe meglio non esserlo. La sottile linea tra “terzo cinema” didattico e cinema-cinema è risolta a favore di questo film grazie a elementi di pura messa in scena. Bastano l’inizio e la fine. La prima scena del lavoro manuale sulla gomma è strepitosa, materica, onesta. Il momento “revenge” è labirintico, duro, secco come il colpo del bastone che schiocca sulla testa. Qua e là poi le cose funzionano meno, ma con un atteggiamento cinematico di questo tipo perdoniamo tutto.

GRANCHIO NERO

Granchio nero (2022) - La recensione del film su CinemaLux

Action fantascientifico svedese con l’onnipresente e tostissima Noomi Rapace. Siamo in un futuro “ucrainizzato” con una guerra devastante che ha ridotto il Paese in macerie. Una combattente va in missione semi-suicida sui ghiacci con la speranza di incontrare la figlia strappata dagli invasori. Lasciando perdere ogni riflessione in materia, Adam Berg imbastisce un’avventura fin troppo lunga con alcune idee formidabili e con dignità assoluta per il genere europeo. Sia la guerriglia urbana sia la lunga parte su pattini sono da applausi. Poi sbraca, ma è un piacere (e in Italia si potrebbe fare?).

ANTIDISTURBIOS

Antidisturbios - Delitto e Castigo al TFF 2020 - ArteSettima

Arrivata a sorpresa su Disney+, la serie di Isabel Peña e Rodrigo Sorogoyen (sempre più interessante come autore contemporaneo) ha già fatto il pieno di elogi. Ci accodiamo, notando l’ossessione di Sorogoyen per la corruzione in Spagna, e notando come i problemi dei corpi di polizia – volgarmente, i celerini – siano simili dappertutto. Vincente l’idea di promuovere a protagonista una giovane donna (Vicky Luego, un grumo di bellezza e tensione), e vincente l’idea di guardare al vulcano sociale di oggi come a un conflitto tra persone troppo abituate a scontrarsi per capire il male che fanno ai presunti nemici. L’indagine convince meno dell’affresco ma è un dettaglio.