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Tag: Mike Flanagan

SFONDI STORICI E VITE IMMAGINATE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DUSE

Pietro Marcello in cerca. Obiettivo: un cinema di largo respiro che mantenga rigore e integrità di ciò che ha concepito in passato. Di questo cineasta spontaneo e colto, selvatico e raffinato insieme, abbiamo bisogno. Ha di fatto fondato un’estetica, unica anche in seno alle tante contraddizioni del “cinema del reale”. Con Martin Eden ha ideato un grande film camminando sulle uova del cinema d’essai, senza romperle: un autoritratto ingenuo ma disperatamente vero (Jack London c’est moi), che stava col Marcello precedente e annunciava un nuovo Marcello. Con Duse purtroppo è involuzione. Tanta, tanta polvere che pesa su un ritratto biopico prevedibile, recitato a smorfie grandattoriali, un po’ martoniano e un po’ goliniano, nella terra di nessuno (e poi basta D’Annunzio, per favore!).

SOTTO LE NUVOLE

Anche Gianfranco Rosi ha segnato la stagione d’oro del “cinema del reale”, arrivando a un Leone d’Oro (Sacro GRA) che pareva l’annuncio di una rivoluzione compresa anche dal pubblico generalista. Poi tutto si è un po’ accartocciato, e lo stesso Rosi – pur nuovamente premiatissimo con Fuocoammare – sembra aver faticato a trovare progetti forti e limpidi. Sotto le nuvole torna alla pratica pre-esistente, con un’osservazione molto elegante (bianco e nero in senso nobilitante e ritrattistico) di una Parthenope della gente comune, tra tracce, monumenti, istituzioni, e coloro che li abitano in carne e ossa. Questa città-catalogo (di forme, di soggetti) sembra però ferma alle idee di dieci o quindici anni fa. E con Napoli è complicato proporsi come disvelatori, senza il coraggio del barocco esasperato sorrentiniano o l’energia del realismo dal basso.

LA TOMBA DELLE LUCCIOLE

Grande successo per la riedizione di uno dei più lancinanti e strazianti film d’animazione di sempre. Sarà la sua eterna attualità, sarà che il periodo per la cultura del cartoon nipponico in sala è fertile, fatto sta che il capolavoro di Takahata risuona famigliare come non mai. Complice il recente dibattito spietato e scioccante sulla bontà della bomba atomica (ma non dimentichiamo la questione mai sopita dello sterminio a tappeto della popolazione civile nemica), La tomba delle lucciole rimane un oggetto terribile e senza compromessi. Non bastassero la dignità narrativa e la potenza sentimentale che sprigiona, l’opera dello Studio Ghibli è anche un trionfo iconografico notturno e spiritato. Imperdibile.

LA VALLE DEI SORRISI

Spudoratamente (ma piacevolmente) ispirato al personaggio di Santo Wayne della serie The Leftovers, il ragazzo che abbraccia e toglie il dolore è comunque un personaggio innovativo nell’horror italiano. Strippoli cresce ancora e costruisce un racconto di genere dalle molte ascendenze e dalle molte metafore (sociali, politiche e meta-cinematografiche). Quel che conta è però soprattutto che vi sia cittadinanza per questo immaginario nel cinema italiano, anche con attori importanti e budget adeguati. Sorprendente dal punto di vista iconografico, La valle dei sorrisi dice di un autore pronto a diventare il leader di punta di un movimento “italian folk horror”. Qualcuno lo seguirà?

THE LIFE OF CHUCK

Continua a sgretolarsi la leggenda secondo cui gli adattamenti da Stephen King non funzionano. Anche Mike Flanagan (adattatore horror di eccezione con le serie su Netflix) mette il suo mattoncino, valorizzando un racconto breve attraverso una storia tripartita, in senso anti-cronologico. Sicuramente originale, specie nell’atto iniziale (dove lo spiazzamento è più inquietante), il film purtroppo perde via via tutti gli umori complessi e ambigui per puntare su un sentimentalismo esasperato (complice anche una disastrosa colonna sonora dalla funzione pavloviana). E alla fine l’ibridismo hollywoodiano che ne garantisce l’interesse rappresenta anche il primo motivo di frustrazione, con accenti irrazionalistici e individualistici talvolta sospetti. Definiamolo un divertente pareggio con un gol per parte.

HONEY, DON’T!

Seconda parte di una “trilogia lesbo-noir” di cui Drive-Away Dolls è stato la prima pietra. Quel film fu snobbato senza capirne – paradossalmente – la leggerezza. Una specie di “garage days re-revisited” di Ethan Coen, deliziosamente a metà tra B-Movie e acid cinema. Stavolta è il contrario, sembra leggero (in sala si ride finché si capisce che c’è poco da ridere) ed è invece un ritratto malinconico – se non disperato – della provincia MAGA americana (esplicitamente citata in una gag da applausi). Sostanzialmente, se si eliminasse il trattamento sarcastico di Coen, ogni momento narrativo del film sarebbe drammatico e serissimo. Margaret Qualley domina, come private eye post-noir dalla battuta pronta e dalla vulnerabilità nascosta dietro una facciata da Mickey Spillane.

RIFONDAZIONE DEL CINEMA E ANATOMIE COMPARATE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

IL LIBRO DELLE SOLUZIONI

Era difficile immaginare un ritorno così maiuscolo per Michel Gondry. Grazie a una seduta di auto-analisi intorno alla depressione e all’urgenza del fare cinema, l’autore riesce con la sua imprevedibilità ad evitare ogni effetto di meta-cinema felliniano. Piuttosto, il film diventa da una parte terapia (e dignità della terapia in sé, da offrire allo spettatore con meravigliosa impudenza) e dall’altra invenzione nella sua accezione più letterale. Ed è proprio il profluvio di idee fondative (dalla foglia bucata come mascherino al “camiontaggio”, dalla colonna sonora composta gestualmente alle animazioni) che rende Il libro delle soluzioni una pur rifondazione del cinema. Cinema come bricolage ma tutto sommato anche cinema come infinita possibilità di sintesi originale dei gesti artistici, qualsiasi forma prendano. Sarebbe un peccato che, con la sua aria dimessa e fragile, questo bellissimo film sul concetto di fantasia prendesse la strada della “curiosità minore” nella filmografia dell’ex-regista di culto.

ANATOMIA DI UNA CADUTA

Che cosa gli vuoi dire, a un film così? Una storia solidissima dal punto di vista drammaturgico, che parte da una morte misteriosa e comincia a scavare nel prima e nel dopo attraverso l’indagine, i personaggi, gli eventi. Il gioco con lo spettatore è ovvio quanto riuscito: a chi crediamo? e perché? con quali pregiudizi? Al centro una figura di donna: non per forza piacevole, non per forza simpatica, in mezzo a una feroce lotta mascolina tra pubblico ministero e avvocato difensore, tra marito morto e figlio cieco. Se dobbiamo guastare la festa, lo facciamo solo per far notare simbologie di scrittura un po’ facili (il bambino ipovedente è il personaggio più meccanico) e un’umiltà di regia che non per forza suona sempre come la scelta migliore. Ma sarebbe cocciuto eccederne i piccoli limiti.

SAW X

Per ritornare sui passi della saga (già comatosa da tempo) ci voleva qualche scossa. L’idea è far tornare l’Enigmista in un episodio collocato nel passato e connetterlo ai cattivi succedanei grazie a qualche sorpresa finale. Ma soprattutto attraverso una storia meno prevedibile, dove la vendetta scaturisce da un torto feroce, che quasi quasi sembra giustificare (l’horror Usa sta andando sempre più a destra) le torture raccapriccianti. Queste in verità sono il vero attrattore, in una corsa al grand guignol che sfiora nuove vette, almeno nel mainstream. Ogni tanto sembra quasi una “camera delle meraviglie” anatomica, un cabinet finalmente consapevole della filosofia dell’orrore. Ma passa subito, e tutto torna rozzo come sempre.

LA CADUTA DELLA CASA USHER

Ennesima conferma per Mike Flanagan: le sue carte migliori sono in scrittura. Anche questa epopea dell’avidità (non travestita da horror, caso mai il contrario) è piena di finezze. Non si tratta solo dell’idea riuscita di antologizzare tanti racconti di Poe attraverso la gestione orizzontale di un contenitore verticale (modernizzato), ma proprio di personaggi sinuosi, particolari, controversi, credibili. E se qualcuno pensa che lo showrunner abbia chiesto troppo, ci si ricordi dello stato dell’horror seriale contemporaneo prima di fare gli schizzinosi. Il cast, in buona parte ben noto ai flanaganiani, fa il resto con convinzione.

IL GRANDE LEBOWSKI

Un quarto di secolo per uno dei titoli più celebrati del cinema americano contemporaneo e dell’intera carriera dei Coen. E bisogna dire che regge a ogni revisione, anche perché tutte le questioni di postmodernità e mix di generi, poste all’epoca dalla critica, oggi sono meno centrali e lasciano spazio alla struggente e tragicomica epopea dei falliti, degli inetti e dei sinceri che ne ha decretato il vero successo. E Dude si conferma sempre di più antidoto all’ansia moderna, che negli anni Novanta stava alla finestra pronta a divorarci nello spaventoso nuovo secolo di terrore, guerre, pandemie, crisi economiche. Un meccanismo praticamente perfetto, forse l’ultima commedia possibile del secolo breve.