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Tag: Paolo Strippoli

SFONDI STORICI E VITE IMMAGINATE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DUSE

Pietro Marcello in cerca. Obiettivo: un cinema di largo respiro che mantenga rigore e integrità di ciò che ha concepito in passato. Di questo cineasta spontaneo e colto, selvatico e raffinato insieme, abbiamo bisogno. Ha di fatto fondato un’estetica, unica anche in seno alle tante contraddizioni del “cinema del reale”. Con Martin Eden ha ideato un grande film camminando sulle uova del cinema d’essai, senza romperle: un autoritratto ingenuo ma disperatamente vero (Jack London c’est moi), che stava col Marcello precedente e annunciava un nuovo Marcello. Con Duse purtroppo è involuzione. Tanta, tanta polvere che pesa su un ritratto biopico prevedibile, recitato a smorfie grandattoriali, un po’ martoniano e un po’ goliniano, nella terra di nessuno (e poi basta D’Annunzio, per favore!).

SOTTO LE NUVOLE

Anche Gianfranco Rosi ha segnato la stagione d’oro del “cinema del reale”, arrivando a un Leone d’Oro (Sacro GRA) che pareva l’annuncio di una rivoluzione compresa anche dal pubblico generalista. Poi tutto si è un po’ accartocciato, e lo stesso Rosi – pur nuovamente premiatissimo con Fuocoammare – sembra aver faticato a trovare progetti forti e limpidi. Sotto le nuvole torna alla pratica pre-esistente, con un’osservazione molto elegante (bianco e nero in senso nobilitante e ritrattistico) di una Parthenope della gente comune, tra tracce, monumenti, istituzioni, e coloro che li abitano in carne e ossa. Questa città-catalogo (di forme, di soggetti) sembra però ferma alle idee di dieci o quindici anni fa. E con Napoli è complicato proporsi come disvelatori, senza il coraggio del barocco esasperato sorrentiniano o l’energia del realismo dal basso.

LA TOMBA DELLE LUCCIOLE

Grande successo per la riedizione di uno dei più lancinanti e strazianti film d’animazione di sempre. Sarà la sua eterna attualità, sarà che il periodo per la cultura del cartoon nipponico in sala è fertile, fatto sta che il capolavoro di Takahata risuona famigliare come non mai. Complice il recente dibattito spietato e scioccante sulla bontà della bomba atomica (ma non dimentichiamo la questione mai sopita dello sterminio a tappeto della popolazione civile nemica), La tomba delle lucciole rimane un oggetto terribile e senza compromessi. Non bastassero la dignità narrativa e la potenza sentimentale che sprigiona, l’opera dello Studio Ghibli è anche un trionfo iconografico notturno e spiritato. Imperdibile.

LA VALLE DEI SORRISI

Spudoratamente (ma piacevolmente) ispirato al personaggio di Santo Wayne della serie The Leftovers, il ragazzo che abbraccia e toglie il dolore è comunque un personaggio innovativo nell’horror italiano. Strippoli cresce ancora e costruisce un racconto di genere dalle molte ascendenze e dalle molte metafore (sociali, politiche e meta-cinematografiche). Quel che conta è però soprattutto che vi sia cittadinanza per questo immaginario nel cinema italiano, anche con attori importanti e budget adeguati. Sorprendente dal punto di vista iconografico, La valle dei sorrisi dice di un autore pronto a diventare il leader di punta di un movimento “italian folk horror”. Qualcuno lo seguirà?

THE LIFE OF CHUCK

Continua a sgretolarsi la leggenda secondo cui gli adattamenti da Stephen King non funzionano. Anche Mike Flanagan (adattatore horror di eccezione con le serie su Netflix) mette il suo mattoncino, valorizzando un racconto breve attraverso una storia tripartita, in senso anti-cronologico. Sicuramente originale, specie nell’atto iniziale (dove lo spiazzamento è più inquietante), il film purtroppo perde via via tutti gli umori complessi e ambigui per puntare su un sentimentalismo esasperato (complice anche una disastrosa colonna sonora dalla funzione pavloviana). E alla fine l’ibridismo hollywoodiano che ne garantisce l’interesse rappresenta anche il primo motivo di frustrazione, con accenti irrazionalistici e individualistici talvolta sospetti. Definiamolo un divertente pareggio con un gol per parte.

HONEY, DON’T!

Seconda parte di una “trilogia lesbo-noir” di cui Drive-Away Dolls è stato la prima pietra. Quel film fu snobbato senza capirne – paradossalmente – la leggerezza. Una specie di “garage days re-revisited” di Ethan Coen, deliziosamente a metà tra B-Movie e acid cinema. Stavolta è il contrario, sembra leggero (in sala si ride finché si capisce che c’è poco da ridere) ed è invece un ritratto malinconico – se non disperato – della provincia MAGA americana (esplicitamente citata in una gag da applausi). Sostanzialmente, se si eliminasse il trattamento sarcastico di Coen, ogni momento narrativo del film sarebbe drammatico e serissimo. Margaret Qualley domina, come private eye post-noir dalla battuta pronta e dalla vulnerabilità nascosta dietro una facciata da Mickey Spillane.

REGNI, NASCONDIGLI E PRIGIONI: FASI DEL CINEMA E DELLA STORIA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

BLACK PANTHER: WAKANDA FOREVER

Una buona notizia c’è: è finita l’orrenda fase 4 della Marvel, che verrà ricordata come il regno della confusione progettuale. E si chiude con un film altrettanto caotico, pur se apparentemente unificato dall’afro-estetica (che puzza di appropriazione culturale tanto quanto altri prodotti più discussi). Per il resto, la sostituzione di Boseman è pigra e prevedibile, il cattivo un Aquaman a rovescio, l’enfasi subacquea messa lì per lanciare Avatar 2 e la de-colonizzazione un washing aziendale imbarazzante (con finale reazionario). Da dimenticare in fretta, a meno di prenderla come passerella di 160 minuti per i magnifici costumi di Ruth Carter, un film nel film.

BARBARIAN

Piccolo caso horror del dopo-estate americana, arriva su Disney+ da noi un po’ in sordina. Con una certa condiscendenza, si possono apprezzare alcune cose: il roller coaster narrativo, con un gioco in contropiede sulle aspettative identitarie – decisamente riuscito nella prima parte; una qualche spudoratezza nel progetto, senza troppa paura dei rischi di ridicolo; il ritorno di facce come Justin Long (e come il personaggio riequilibra il dominio di genere). Pochino? Nella gravissima crisi dell’horror contemporaneo ci si accontenta.

ARGENTINA 1985

Il dilemma della critica di fronte a questi film si ripresenta come il sangue di San Gennaro. Chi potrebbe voler male a un vibrante racconto (su Prime Video) del processo che inchiodò i generali della dittatura argentina negli anni Ottanta? Chi siamo noi per vare le pulci a qualsiasi cosa giri Ricardo Darín? Eppure, il dritto per dritto non concede nulla a un cinema mai meno che frontale e didattico. Insomma, siamo lontani dalla reinvenzione del cinema civile di No – I giorni dell’arcobaleno.

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE

Non so se, senza 1917, sarebbe tornata in auge la Prima Guerra mondiale nei film contemporanei. Certo che tornare a Remarque non è una cattiva idea, anche solo per ricordare che là dentro c’era già tutto. La trasposizione nell’epoca dello streaming (Netflix) tuttavia non giustifica gran che il ricorso al modello, mancando di qualsiasi pensiero profondo sul conflitto. Grazie al parossismo e a ottime scene di battaglia (specie negli spazi stretti della trincea) si resta comunque ammirati.

CAUSEWAY

A dimostrazione che lo streaming (Apple+ in questo caso) sta assorbendo distributivamente anche l’indie-cinema americano, ecco un classico Sundance-movie dove si parla molto e si osservano micro trasformazioni psicologiche nel rapporto tra due personaggi ai limiti della società. Detta così sembra deludente, e invece il minimalismo funziona sempre quando è acuto, sottile e critico. Jennifer Lawrence e soprattutto Brian Tyree Henry sono superlativi, ma basterebbe la scena del colloquio in carcere per volere bene al film di Lila Neugebauer.

IL PIACERE E TUTTO MIO

Non so se disperarmi perché nel 2022 c’è bisogno di un film del genere per spettatori con seri problemi di progresso sociale, o perché nel 2022 il cinema d’essai pensa che ci sia bisogno di un film del genere (anche se siamo di fronte a una specie di algoritmo per audience mature di chiara motivazione commerciale). Per fortuna c’è Emma Thompson, che è una specie di filtro per l’aria del cinefilo: tutto ciò che di ipocrita, retorico, finto coraggioso, salottiero, anti-cinematico, conservatore passa per il suo volto e il suo corpo, ne esce pulito, riscaldato, umanizzato e più stimolante. Brava lei.

PIOVE

Risposta da horror indipendente a Siccità. Dentro il mondo di Virzì non piove mai, in un paesaggio urbano assolato e spopolato, dove tutti si odiano ma sprazzi di umanità si ricostruiscono tra sconfitti dalla vita; qui piove sempre, tutti si odiano lo stesso ma almeno passano ai fatti, con una versione splatter della litigiosità da social. Strippoli continua nel suo tentativo di trovare uno spazio di sangue e una consapevolezza di genere nel cinema italiano; e ci riesce a singhiozzi. Rongione alza il livello del cast.

UN ANNO, UNA NOTTE

Come fare cinematograficamente i conti con la strage del Bataclan? Raccontando sprazzi della vita di un paio di sopravvissuti. Ovviamente la curiosità un po’ morbosa dello spettatore è più che altro concentrata su quando arriveranno i flash-back del massacro, che ci sono e sono intelligentemente giocati sulla paura e sul fuoricampo, piuttosto che sulle atrocità. La questione della rielaborazione sentimentale e psicologica, invece, somiglia a tantissime altre, col pilota automatico del film d’autore: inquadrature strette e introspezione assicurata.