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Tag: Radu Jude

IPOTESI-CINEMA E IMMAGINI IMPOSSIBILI

Il MAHABHARATA

Il vero Mahabharata di Peter Brook, oltre ovviamente alla versione teatrale che dà origine al tutto, è la versione televisiva di quasi sei ore andata in onda nel 1989 su Channel Four. Non di meno, il lungometraggio di tre ore – pur mancante di passaggi essenziali alla comprensione del complicatissimo piano simbolico dell’opera – è rimasto nelle “teche” della cinefilia per la sfida al set e al rapporto teatro/cinema. Riportato meritoriamente in sala da Cinemaundici e Lumière & Co, (all’epoca fu Mikado), è una versione restaurata in 8K (attenzione, però, non proiettata come tale – sarebbe impossibile al momento – ma a seconda della definizione cui sono attrezzati i singoli schermi). Tecnologia a parte, il capolavoro di Brook rimane intatto, monumentale, sublime, talvolta torturante e talvolta illuminante. Vale la maratona, oggi come ieri e come domani.

HOT MILK

Su MUBI l’arrivo di un singolo titolo da festival, in un calendario decisamente meno ricco di novità di quel che l’abbonamento dovrebbe promettere, sembra sempre qualcosa di eccezionale. Da celebrare, però, nel film scritto e diretto da Rebecca Lenkiewicz (presentato a Berlino 2025), non c’è molto. La sbilenca storia d’amore tra le impacciate Emma Mackey e Vicky Krieps è meno interessante del problema di salute (probabilmente psicosomatico) di una madre dai molti segreti. E tra confessioni, lutti nascosti, tensioni erotiche, una Almeria che somiglia alla Grecia di La figlia oscura, il mélo apparentemente negato dalla messa in scena naturalista finisce con l’uscire a sua volta claudicante.

SCONOSCIUTI PER UNA NOTTE

Difficile parlare del film di Alex Lutz senza svelare le sorprese (o forse le intuibili svolte) offerte dall’ultimo atto. Anche perché a posteriori chiariscono meglio quanto Sconosciuti per una notte sia diverso dalla piccola ondata di passeggiate notturne per la città che è arrivata nelle nostre sale dalla Francia (alla mente viene per primo Ma Nuit, 2021). Il vero modello è chiaramente Lelouch, in ricordo del quale si scacciano i timori di diventare troppo sentimentali – il che sarebbe anche paradossale per il cinema francese “dell’amore”, da troppo tempo imborghesito e anempatico. Ci sono scelte (i primi minuti con la lite, l’ellissi, l’amplesso col solo movimento delle gambe) che vanno prese come sprazzi di luce registica, non sempre sostenuti per tutta la durata del détour. Ma col finale, la “paura d’amare” torna al centro. E tanto basta.

DANGEROUS ANIMALS

Non c’è nulla di peggio di un regista maschio che vuol farsi paladino di un discorso anti-patriarcale senza averne lo spessore. A parte il fatto che Dangerous Animals non funziona nemmeno come exploitation (un barcarolo psicopatico carica vittime su un piccolo yacht turistico e le lancia in pasto agli squali per puro sadismo), quel che davvero sconcerta sono le equazioni proposte da Sean Byrne. La protagonista “badass” con famiglia tormentata alle spalle inverte i rapporti di forza solo perché possiede doti sovrumane di lotta; il delicatissimo titolo e gli sproloqui del cattivo ci informano ad nauseam che il vero predatore non è l’incolpevole squalo ma il maschio tossico; il gore (pur inefficace) insiste morbosamente sui corpi sventrati dei cadaveri senza un vero perché e con effetti perniciosi. Un disastro.

ULTIMO TURNO

Anche nel cinema d’essai si impone una tipologia di film-performance epidermica, ammantata di umanesimo ma principalmente basata su effetti ritmici, patemici, cronologici assai più superficiali di quel che appare. La giornata infernale dell’infermiera Floria (interpretata dalla fin troppo lodata Leonie Benesch) comincia con lo scoprire che sarà sola nel reparto e finisce a notte fonda tra tragici errori e inevitabili sfoghi. In mezzo una corsa a perdifiato per accudire tutti i pazienti. Alla fine una didascalia ci avverte che il sistema sanitario pubblico è al collasso ovunque. Applausi e tutti a casa. Purtroppo non c’è un solo momento che non sia un ER (o un The Pitt) di prestigio cinematico. Come “thriller del lavoro” sotto pressione funzionava meglio il solido Full Time (2021) di Éric Gravel.

EIGHT POSTCARDS FROM UTOPIA

Arriva su MUBI la formidabile (e inedita in Italia) satira di Radu Jude e Christian Ferencz-Flatz. Si tratta di un documentario che assembla materiale d’archivio tratto esclusivamente da pubblicità rumene post-rivoluzione, dopo la fine del socialismo. La visione, pur di soli 70 minuti, è durissima. Se Jude ci ha già abituati nel suo cinema a integrare nel racconto di finzione elementi archivistici, provenienti da found footage, trash-TV, social media, questa volta è solo montaggio. E la quantità di kitsch contenuta in un’ora e dieci di spot, video elettorali, schegge di fiction, filmati locali e altro ancora giunge al parossismo portando lo spettatore a una nausea mediale (e indirettamente politica) che vale più di mille discorsi progressisti preconfezionati del cinema d’essai più salottiero. Una conferma per un autore che sta riscrivendo il cinema europeo.

LA NOTTE ARRIVA SEMPRE

Distribuzione direttamente su Netflix per l’attesa trasposizione di un romanzo di Willy Vautlin (i cui romanzi “steinbeckiani” sono già stati più volte adattati), diretto da Benjamin Caron, veterano delle serie prestige e autore di un intricatissimo noir da piattaforma come Sharper (2023). Vanessa Kirby fa da mattatrice come giovane donna “white trash” che deve raccogliere un sacco di soldi tutti in una notte per evitare lo sfratto. Ha un fratello disabile e una madre che sembra uscita da Elegia americana. Siamo nei paraggi di un Loach vitaminizzato e americanizzato, con mille sottolineature ininfluenti sull’impoverimento della classe proletaria e sull’inflazione fuori controllo. Simile a quegli instant movie del dopo-Lehmann Brothers, girati tra 2008 e 2010. E altrettanto dimenticabile.

VIAGGI (POLITICI) NEL TEMPO E NELLO SPAZIO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

DO NOT EXPECT TOO MUCH FROM THE END OF THE WORLD

Cineasta ormai irrinunciabile nel panorama internazionale, Jude è uno dei pochi in grado di progettare e creare un incidente frontale con il contemporaneo. Il rifiuto di distinguere politica, estetica, ideologia e linguaggio fa sì che la totale destrutturazione dei suoi film risulti paradossalmente tanto più spontanea quanto meno digerita dal grande pubblico. Anche stavolta, la satira del documentario e dei media digitali si eleva a dolentissima riflessione sul presente e sulla post-democrazia, di cui evidentemente (ormai lo abbiamo capito a suon di registi e di film) la Romania è laboratorio/osservatorio privilegiato. Per il resto si ride e ci si raggela, ci si raggela e si ride, finendo con l’avere una compassione profonda per gli essere umani là davanti alla macchina da presa.

NAPOLI – NEW YORK

Devo ammetterlo: saputo che Salvatores avrebbe adattato un soggetto inedito felliniano e visto il micidiale trailer, i pregiudizi si erano fatti quasi insormontabili. Quasi. Perché il critico si è abituato a non fidarsi mai delle sensazioni. E infatti Napoli – New York si rivela l’esito più felice di Salvatores da anni (forse dal coraggioso Il ragazzo invisibile, 2014). Il rispetto per il raccontino di partenza – che fa emergere l’animo bozzettistico di Fellini e Pinelli all’altezza di fine anni Quaranta – protegge da ambizioni autoriali mal riposte e permette di sciogliersi nella “fiaba critica”, pescando a piene mani da Leone, Tornatore, un po’ di Comencini e un pizzico di Crialese. Giova la ricostruzione dell’America fatta in Croazia, una specie di dichiarazione estetica da set, questa sì molto felliniana e figurativamente ispirata alla storia dell’illustrazione italiana.

IL GLADIATORE II

Se Eastwood sorprende perché gira lucidi origami a 94 anni, dovremmo congratularci con Ridley Scott che gestisce set colossali a 87. Purtroppo le strette di mano finiscono qui. Perché il sequel del fortunato blockbuster di un quarto di secolo fa dimostra che il tempo è passato, l’idea di storia romana come fantasy è ormai anacronistica, e persino il retrogusto stile peplum hollywoodiano d’antan diventa meno dolce. A non funzionare sono la maniacale adesione al capostipite (di cui è in fondo un remake) e l’attore protagonista – Paul Mescal fallisce la transizione da corpo intimista per autori raffinati a muscolare eroe popolare. Curiose le assonanze con Megalopolis: entrambi usano Roma e la sua storia per parlare di America e di politica globale. Ma Scott fa il furbo e le sue metafore sembrano voler accontentare tutti.

BLITZ

I bombardamenti tedeschi su Londra nella Seconda Guerra mondiale hanno una piccola grande storia nella letteratura e Steve McQueen a sua volta li considera contenitore ideale per una storia di andata e ritorno dickensiano di un orfano/non orfano dalla pelle scura. L’idea è quella di raccontare un viaggio infantile in uno scenario di distruzione senza rinunciare a commenti sulla società britannica, che mentre veniva attaccata dalla furia omicida nazista non mancava di mostrare divisioni razziali, di classe e di censo al suo interno. In più, c’è la storia di una giovane madre e della sua sfrontatezza dentro una piramide patriarcale che non le perdona libertà sessuale e di parole. Gestire il tutto scegliendo gli stilemi del period drama deluxe (con ampi riferimenti all’ottimo Anni ’40 di John Boorman) è una scommessa sovrabbondante, audace ma poco riuscita.

HEY JOE

Entra pian piano nella testa, il nuovo film di Claudio Giovannesi – autore laterale del cinema italiano, che non se la tira e lavora spesso con idee sottili, costruite con competenza. Il ritorno del soldato americano a Napoli esce dal repertorio della canzone popolare ma poi viene ribaltata scegliendo il tema della malinconia e della ricucitura impossibile (il nostos destinato alla morte che spesso viene associato a Napoli e che già era fortissimo nel Martone di Nostalgia). Molto della credibilità del racconto si deve alla recitazione dolce di James Franco (con evidenti echi auto-biografici) e alla fotografia di Daniele Ciprì, attenta a cromatismi densi ma trattenuti.

HANNO UCCISO L’UOMO RAGNO

Fedelissimo al suo tema ossessivo (sfigati di provincia che si uniscono trovando un successo insperato), Sydney Sibilia – con un bel team di registi e sceneggiatori – dimostra come torcere una storia da alto rischio di shitstorm e presa per i fondelli (la vita degli 883) facendola diventare un corroborante romanzo di formazione provinciale. Eccezionale la scelta dei due attori – in particolare Elia Nuzzolo (già next generation caldissima) che si concia come un Tin Tin impacciato con tratti da nerd americano. L’effetto “retromania” funziona per gli over 40, ma la serie gioca con sentimenti universali anche dei teen. Scambiarlo per qualcosa di importante sarebbe delittuoso, ma di commedie musicali seriali all’italiana fatte bene se ne vedono poche.

THE DIPLOMAT 2

Il problema e la forza di Diplomat sono la stessa cosa: comprimere in poche stanze e in rari esterni grandi crisi politiche (per lo più enunciate nei dialoghi) permette di ottenere una potente “verbalizzazione del conflitto”. In essa convivono schegge di screwball comedy e di cinema politico anni Settanta (curiosamente shakerate). Ma in questa stagione la claustrofobia è divenuta meno spontanea, e le forzature della storia contemporanea inverosimili (qui e in Slow Horses il Regno Unito è al centro di trame oscure e pazzesche: ma quando mai? sarà un malcelato desiderio dettato dal declino?). Per la terza stagione – annunciata da un cliffhanger vecchio stile – urgono idee di scrittura e un aggiornamento sul presente (per quanto difficile da inseguire).

UNIVERSO BATTISTON: STUCKY E IL CORPO

Che Giuseppe Battiston abbia abbandonato da tempo il territorio – pur degno – del caratterista di lusso è noto. Ma i panni del detective gli donano ancora di più, da protagonista. I rappresentanti della legge interpretati nella serie di Valerio Attanasio e nel film di Vincenzo Alfieri (due che credono ai generi in Italia, se Dio vuole) non potrebbero essere più diversi. Il tenente Colombo è il modello del primo, l’investigatore mangiato dalla vita (stile polar) quello del secondo. Si gode in entrambi i casi: leggerezza per Stucky (ma con una provincia assassina che non sarebbe dispiaciuta a Simenon), divertissement macabro per Il corpo. Le piccole cose che ci piacciono (e forse sono necessarie) nel panorama nazionale.