Skip to main content

Tag: Riccardo Milani

PONTI DI CINEMA TRA STORIA E IMMAGINE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

CINQUE SECONDI

Bel terreno di elaborazione critica. I problemi sono evidenti: un arco narrativo intuibile dai primi minuti; un ritratto di gioventù che sembra ideato da Corrado Augias se avesse vent’anni più di quelli che ha; un boomerismo insistente. Ma poi (un po’ come la barca della figlia) tutto viene rovesciato: un dolore lancinante di autenticità sorprendente, come sempre in Virzì e Bruni; un giudizio morale che diventa sempre più complicato; un lavoro sulla composizione del quadro e degli spazi cinematografici che seppellisce un buon 90% dei registi italiani attuali; un’ironia intelligente, che prima intride e poi stride apposta; Mastandrea e Bruni Tedeschi mostruosi. Quindi che si fa? Si prende o si lascia? Si prende.

THE MASTERMIND

Tra alti e bassi distributivi, e forse grazie alla fama di Josh O’Connor, arriva anche in Italia la nuova fatica di Kelly Reichardt, regista di straordinaria, complicata finezza. The Mastermind (tempestivo dopo il furto al Louvre) parla di un ladro atipico da museo, una sorta di malinconico drop out che si trova a malpartito con la vita stessa, oltre che con la società. Come sempre nel cinema di Reichardt si galleggia straniti e poi si affonda pian piano. Il paesaggio e la società americani non pretendono subito il loro status simbolico ma soffocano lentamente i personaggi. Quelli secondari, poi, spalancano vite consumate che somigliano un po’ a O’Hara e un po’ a Carver. E la Hollywood anni Settanta se ne sta seduta a guardare, sorniona, evocata nel modo giusto, senza cinefilia facile.

SPRINGSTEEN

Un mezzo disastro. Purtroppo mentre James Mangold ha trovato la chiave-Dylan (conflitto folk/rock come diapason per capire una certa modernità americana), Scott Cooper non ha trovato la chiave-Boss (conflitto rock/folk – rovesciato – che non dice niente né di Bruce né dell’America). Le paturnie creative dell’artista sono raccontate come tristemente ordinarie (autore tormentato con la testa tra le mani), così come rozzi appaiono il dramma famigliare e l’immaturità sentimentale. Inoltre Cooper non sembra saper filmare la musica, finendo con lo spezzettarla e renderla inautentica (confrontare, anche in questo caso, i live di Mangold). Sembra un film sotto dettatura, e sarebbe triste scoprirlo.

IL SENTIERO AZZURRO

Sorprendente opera nomadica del regista brasiliano Gabriel Mascaro, che racconta una distopia del presente, immaginando la deportazione forzata degli anziani una volta raggiunta una certa età. Una di loro, Tereza, non ci sta e fugge in Amazzonia, intraprendendo un viaggio senza centro e senza destinazione certa. Mascaro si distingue dai registi che avrebbero scelto di girare un rassicurante feel good movie scolastico grazie a uno stile possente, nitidissimo, dove natura e animalità la fanno da padrone, insieme a un cromatismo non di facciata. Orso d’Argento alla Berlinale 2025.

IL PIANETA SELVAGGIO

Non so se definirlo addirittura un cult movie, ma certamente l’apologo di animazione ideato da Topor e firmato da René Laloux nel 1973 ha fatto un pezzetto di storia di questo genere. Sebbene plateale nella sua ansia allegorica (la lotta tra due popolazioni fantastiche in un mondo di padroni e di sopraffatti), la storia del Pianeta selvaggio è appassionante e lirica. Ma il vero tesoro, ancora oggi intatto, è il disegno (a mano) che fonde surrealismo, età dell’oro del fumetto d’autore moderno, e il tratto “psichiatrico” dell’artista Laloux in regia. Man mano che l’opera procede, la dimensione visionaria e ipnotica prevale, lasciando lo spettatore “lucidamente a bocca aperta”, se si può dire così.

SIAMO IN UN FILM DI ALBERTO SORDI?

Chi ha l’età per ricordare l’indimenticabile Storia di un italiano su Rai Uno di e con Sordi (1979-1986) ne ritroverà qualche traccia in questa carrellata critica sulla filmografia dell’attore. Grazie alla consueta cura cinefila (e storiografica) di Della Casa e Taricano, il doc è a dir poco godibile, sia per l’antologia di pezzo sordiani, anche meno noti, sia per le riflessioni a margine (pur non originalissime). Molta attenzione è riservata alla fase aurorale della carriera, ma a contare di più è la galassia delle sequenze sordiane, una playlist che si stacca dai singoli film e diventa un’altra cosa, capace di tracciare il vero ponte sullo stretto tra le isole del cinema italiano del dopoguerra.

LO SPECCHIO SCURO DEL CINEMA FLAGRANTE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

MAY DECEMBER

Con i consueti fantasmi di Orson Welles e di Douglas Sirk a inseguirlo, Todd Haynes escogita la perfetta trappola cinefila: fare un women movie apparentemente middlebrow per poi procedere a un’analisi culturale e pulsionale estremissima. Il confronto “grandattoriale” tra Julianne Moore e Nathalie Portman, con tutti gli eccessi recitativi che si porta volontariamente dietro, scandaglia ogni tipo di perversione corporea, ageistica, sessuale, tra sociopatia e devianza, in un gioco a rimpiattino tra abusi, manipolazioni, tossicità ed estrema, infinita solitudine. Pur gravato qua e là da elementi di sceneggiatura pesantemente simbolici (la metafora della caccia e quella della crisalide), May December è una specie di pièce sulla provincia molecolare americana, e la messa in scena di Haynes nega e raffredda il mélo con capacità clinica (come se Robert Altman girasse il remake di Eva contro Eva).

PRISCILLA

Ritorno in grande stile per Sofia Coppola dopo il trattenuto On the Rocks. L’analisi biografica degli anni giovanili di Priscilla ed Elvis, tutti raccontati dal punto di vista di lei, non soltanto esprimono una rigorosa coerenza d’autore (evidenti le parentele teen con Maria Antonietta, The Bling Ring, Somewhere), ma anche una formidabile coerenza tra discorso e forme espressive. Da una parte, infatti, Coppola smonta pezzo pezzo la mascolinità di Elvis raccontando i vari stadi della manipolazione di genere e dell’abuso di potere psicologico (grooming, mansplaining, gaslighting, ecc.); dall’altro questa disparità assume i connotati di una favola mostruosa con sproporzioni eccessive (l’altezza dei due), ossessioni dello spazio interno (la camera da letto come prigione), giochi di ruolo orrorifici (le mascherate di Elvis come travestimenti psicotici del carnefice), passerelle di sguardi (Priscilla alle prese con l’osservazione collettiva dell’ensemble maschile di amici di Presley). Acutissimo, inoltre, il discorso sulla celebrità vista dall’interno di un mondo domestico, dove non si è abbastanza vicini alla stella per goderne la luce (al massimo per “tenere acceso il focolare”) ma non abbastanza lontani per evitarne le conseguenze nefaste.

KUNG FU PANDA 4

Ce n’era bisogno? Decisamente no. Funziona? Decisamente sì. L’animazione blockbuster sta facendo una grande fatica – complici pandemia e destrutturazione del mercato family – a costruire nuovi prototipi (leggi: franchise). E quindi ecco rispolverati i campioni d’antan. Ma, una volta appurata la natura puramente derivativa (“trovate una qualsiasi idea pur di riportare Po sullo schermo entro il 2024!”), bisogna ammettere che si riconferma l’abilità in scrittura, più che nel reparto grafico, degli autori: personaggi riusciti, gag spesso esilaranti, citazioni gustose (la baracca traballante di La febbre dell’oro), qualche allusione al populismo e al trasformismo del caos geopolitico internazionale. Certo però che i tempi in cui Kung Fu Panda stimolava le riflessioni di Slavoj Žižek son belli che andati.

UN MONDO A PARTE

Se Bisio ha interpretato il desiderio di negoziazione geo-culturale (Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord) e Antonio Albanese quello della riconciliazione tra élite e popolo (Un gatto in tangenziale uno e due), ora quest’ultimo sloggia il primo nel suo stesso territorio. Più che settentrione e meridione, però, qui si tratta di “nuovo localismo”, con un confronto tra città e piccolo borgo, e annessa questione scolastica. Scoperte le formule (che, ci mancherebbe, devono esserci nella commedia), si può apprezzare uno script assai brillante, che vive del rigenerante apporto di caratteri e caratteristi abruzzesi, con una serie di gag, parodie sociali e paradossi culturali ingegnosi. Al solito, quando arriva il momento della pedagogia dei sentimenti, si eccede e il terzo atto diventa un percorso di riparazione ai rischi di lacerazione satirica del resto del film. Pur rimanendo curiosi di sapere cosa ne avrebbero fatto con più cattiveria i maestri della commedia all’italiana (magari con un Manfredi perfido), si dia il giusto merito a Riccardo Milani, autore lucidissimo di prodotti dignitosi e necessari al box office.

GODZILLA E KONG

Il Monsterverse di Legendary e Warner prosegue la sua corsa, riservando alle serie streaming qualche cura narrativa in più (il non disprezzabile Monarch) e lasciando alla sala cinematografica lo spettacolo villano del wrestling tra mega-mostri. Nulla di male – tanto più che, come ci spiegano gli analisti, si tratta di un cinema un po’ orfano, che porta in sala cellule dormienti di spettatori non sempre invogliati dalla formula del blockbuster d’autore stile Villeneuve. Qui si va giù pesante, insomma, rozzi quanto basta per non imboccare il sentiero della metafora ideologica (che pure ci tenterebbe). Piace, di Adam Wingard, lo sprezzo per i freni inibitori e la passionaccia per l’avventura esotica, con tanto di regni perduti, civiltà sepolte, varietà fantasiosa di creature (tra cui un messianico Mothra). Momenti di assurdo volontario: Kong dal dentista e Godzilla che ronfa al Colosseo.

IL TEOREMA DI MARGHERITA

I feelgood movies esistono anche nel cinema d’autore. Lo dimostra il raccontino su matematica e sentimenti di Anna Novion, che si situa nel sottogenere del cinema “aritmetico” con tutti i suoi stereotipi kitsch: la protagonista secchiona, la sfida risolutiva di stampo enigmistico ed epico, l’intreccio di amore e numeri primi, e tutto il bric-à-brac metaforico cui siamo abituati da anni. Non si vede certo con dispiacere, a patto di non farsi buggerare dalla seriosità e prenderlo alla stessa stregua di un film con mostri mitologici che si prendono a botte, con un secchio di popcorn in grembo.

ANOTHER END

Il tiro al piccione sulla fantascienza meditativa di Piero Messina è stato un po’ impietoso. In verità, sebbene derivata da una lunga serie di precedenti (a cominciare da Alps di Lanthimos), la storia dei corpi vicari che prolungano l’esperienza di chi vive un lutto ha un discreto tasso di densità narrativa. Forse c’era bisogno del coraggio di andare fino in fondo – una “commedia del rimatrimonio” con una moglie morta e un corpo sostitutivo – ma anche in questo caso il dialogo sentimentale fra trapassati non è cosa che si vede tutti i giorni. Lo stile è quello del cinema d’autore internazionale co-prodotto, con quell’idea che la fantascienza filosofica dev’essere per forza geometrica a glaciale.

ORLANDO MY POLITICAL BIOGRAPHY

Paul B. Preciado è uno di quei pochi pensatori inarrestabili che si merita l’abusato detto che “se non ci fosse bisognerebbe inventarlo”. E, a proposito di invenzione, questo film/intervista/performance/documentario/saggio è inclassificabile e forse anche un pizzico sottovalutato. Partendo dal “mistero teorico” del romanzo di Virginia Woolf (un testo di enorme complessità che però è capace quasi cent’anni dopo di parlare a tutte le identità non binarie di oggi), lo scrittore e filosofo imbastisce una galleria di personaggi più veri del vero, dando loro voce e facendo una specie di lezione peer to peer di presa di parola biopolitica. Magari non un turning point ma un testo dove la densità teorica sfocia in flagrante trasparenza cinematografica.

STORIE DI ASPIRAZIONI E TRASFORMAZIONI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

CODA – I SEGNI DEL CUORE

CODA - I segni del cuore: dove e quando vedere il film Premio Oscar

Uno degli Oscar al miglior film più anonimi di sempre. Non certo perché si tratti di un remake (gli adattamenti di tutti i tipi sono un aspetto fondamentale del cinema fin dalla sua nascita) ma per la pigrizia con cui è stato confezionato. Difficile sostenere altresì che sia un brutto film, il che è quasi peggio perché la bruttezza talvolta è un segno di vita mentre in questo caso ci troviamo di fronte al classico good job (ricordate il monologo del maestro di jazz di Whiplash?). A proposito di good, possiamo dire che La famiglia Bélier era un classico feelgood movie, di cui Coda trattiene gli elementi euforici con una qualche, pallidissima, aggiunta di critica sociale (il peschereccio) a favore degli esclusi. La presenza di Marlee Matlin e di attori sordomuti garantisce la correttezza assoluta, ma si tratta a tutti gli effetti di un film perfetto per lo streaming. Almeno Netflix presentava alcuni film cinema-cinema, quale Coda non è.

UNA STORIA D’AMORE E DI DESIDERIO

Una storia d'amore e desiderio, un film poetico e intenso che racconta una  lotta interiore (e generazionale)

Interessanti ribaltamenti di prospettiva nel nuovo film di Leyla Bouzid. Abbiamo infatti un giovane maschio francese di origine algerina, cresciuto nella periferia di Parigi con forti elementi di conservatorismo morale. E abbiamo Farah, di cui il ragazzo si innamora, tunisina appena arrivata nella capitale francese e ben più aperta agli incontri occasionali e alla scoperta dell’altro. Per una volta è l’uomo a sottrarsi all’erotismo, e la donna a insegnargli la fisicità dell’amore. Ci metterà tutto il film per farlo, sfruttando anche una tradizione meno nota di letteratura araba erotica. Il cinema sul desiderio è sempre questione di sfumature. Bouzid lo sa e lavora molto bene a partire dalla struttura ottica dell’attrazione, dove lui e lei si scambiano le caratteristiche culturali della danza seduttiva. E anche se la durata del lungometraggio pare eccessiva per un racconto che si mantiene sullo stesso asse per cento minuti, il film ha le idee chiare.

CALCINCULO

Calcinculo, il trailer ufficiale del film [HD] - MYmovies.it

Nuovo gioiellino prodotto da Tempesta. Piccolo cinema italiano dei margini, che sinceramente vediamo spesso ma che altrettanto sinceramente non sempre è ben diretto o attentamente sorvegliato. Di Calcinculo piace proprio l’attenzione di Chiara Bellosi nel costruire gli spazi, gli ambienti, i corpi, il rapporto tra dentro e fuori, viaggio e stasi, giri a vuoto e linee rette: un lavoro davvero ricco, anche se applicato a una vicenda volutamente minimalista. Si comincia con una storia di bulimia e si prosegue con un confronto tra sessi e sul sesso con un outsider assoluto che modifica la visione del mondo della protagonista. Ovviamente ci sono “ganci” di sceneggiatura fin troppo visibili (del resto evidenziati fin dal titolo), ma come detto è proprio nella messa in scena e nella direzione degli attori che il film si incarna e si verifica, e non per forza in cerca di flagranze rohrwacheriane o marcelliane – che altrove hanno fatto scuola nel cinema indipendente nazionale. Infine, una citazione speciale per Andrea Carpenzano, sempre più elettrico.

CORRO DA TE

Corro da te, film con Pierfrancesco Favino e Miriam Leone: trama, trailer,  uscita | Radio Deejay

Ci sono due modi di guardare a questo film. Uno senza troppe menate, per cui ci troviamo davanti a una discreta commedia di Riccardo Milani che aggiorna alcuni elementi “sofisticati” hollywoodiani attraverso un adattamento accettabile dell’originale francese. Poi ce n’è un altra – che sappiamo rischiare l’eccessiva seriosità – che si chiede che senso abbia rappresentare in questo modo la disabilità fisica. Si consideri che nel film uno degli elementi narrativi centrali è che chi si finge disabile viene riconosciuto lontano un miglio dai veri disabili: perché solo loro sanno che cosa vuol dire essere, e non sembrare, limitati da un handicap ogni minuto della propria vita. Ah, sì? E perché quindi noi spettatori dovremmo credere alla bellissima Miriam Leone che si muove disinvolta sulla sedia a rotelle dandoci una lezione sul fatto che tra le disabili si nascondono meraviglie da Miss Italia? Non si tratta di imporre attrici disabili in ruoli di disabile per puri motivi di correttezza ma di non mentire così spudoratamente tra morale della favola e modi per raccontarla.

ALTRIMENTI CI ARRABBIAMO

Altrimenti ci arrabbiamo! 2022: trama cast confronti originale | Style

Flop terrificante per questo remake che osa mettere mano al cinema di Bud Spencer e Terence Hill. Il trailer e i materiali promozionali sembravano in verità aver trovato una chiave per ricordare lo spettacolo popolare di mezzo secolo fa, oggi spina dorsale di prime time delle reti private. Purtroppo il lavoro di Younuts! è un mezzo disastro dal punto di vista del world building. Pesce e Roja ce la mettono tutta per imitare i due miti, ma si trovano immersi in un mondo totalmente svuotato: non solo la scenografia è tristemente di cartapesta, i volti sono sbagliati, i ritmi comatosi, le scazzottate fasulle, le risate telefonate e così via; è che man mano che il film prosegue ci si accorge che quel cinema artigianale e quel pubblico pop non esistono più. Si sostenevano l’un l’altro e si sono trasferiti in una ritualità da piccolo schermo ormai non più resuscitabile. Rimane dunque solo la possibilità di una reviviscenza postuma, che però dovrebbe averne la consapevolezza. Un film per nessuno che voleva essere per tutti.