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Tag: Roberto Andò

AMORI FATALI E ORIZZONTI PERDUTI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

TOGETHER

Gli horror con le idee chiare sono meglio di quelli con le idee confuse. Ovvio. Il rischio dei primi è quello semmai di offrire letture troppo didascaliche (che era, a parere di chi scrive, il limite maggiore di The Substance). Together riesce a evitare le medesime trappole, e a seminare interpretazioni di vario tipo: è una metafora dell’amore tossico? è una commedia del ri-matrimonio bagnata nel cinema di Yuzna e Cronenberg? è un’anti-commedia che ci invita a scappare dai rapporti prima che degenerino? O è un folk horror sulla provincia boschiva Usa e le sue infinite pieghe irrazionali? Sebbene un po’ derivativo dal punto di vista iconografico ed estetico, Together scava in quella trincea ibrida tra elevated horror e mainstream horror che forse sta diventando la terza via più interessante del momento.

TESTA O CROCE?

Progetto ambizioso: un western italiano che scavalla la tradizione leoniana, recupera invece un (bel) po’ di Peckinpah e di rivoluzionari messicani, celebra la Maremma pistolera e i butteri da prateria nell’ “ovest italiano”, zigzaga tra ironia e surrealtà. Rigo de Righi e Zoppis (complice un curioso Buffalo Bill interpretato dal sardonico John C. Reilly) realizzano un UFO cinematografico, nel quale si dimena il sempre generoso Alessandro Borghi (che sarebbe stato benissimo nel cinema di Sollima o Corbucci). Unico, vero, non secondario ostacolo: si gode poco. Un film così dovrebbe stimolare un piacere continuo, lasciare il genere lobero di scatenare le sue passioni; eros e pallottole sembrarci irresistibili. Invece tutto appare accademico e stranamente ingessato, anche – purtroppo – la protagonista Nadia Tereszkiewicz, cui non si crede proprio mai.

FERDINANDO SCIANNA – IL FOTOGRAFO DELL’OMBRA

Chiunque abbia sentito parlare Scianna, se ha resistito allo stordimento affabulatorio, ne è uscito al tempo stesso rigenerato e ammirato. A oltre 80 anni, questo uomo-racconto è in grado di operare ottime riflessioni esistenziali e meta-critiche su sé stesso e sull’arte fotografica. Bene ha fatto Robert Andò, a parte la civetteria di un b/n molto ricercato, a lasciare l’amico libero di parlare senza freni, per poi lavorare al montaggio. Contribuisce alla riuscita del documentario (molto semplice) la chiave della sicilianità, che pian piano diventa una sorta di fil rouge che parte da Pirandello, attraversa Sciascia, trafigge lo stesso Scianna, tocca Dolce & Gabbana (ebbene sì), e arriva a Tornatore. Un pezzetto di arte italiana raccontato con gusto e lasciato ai posteri.

LE CITTÀ DI PIANURA

Si parla di modello-Jarmusch, o Kaurismaki, per questa provincia veneta stonata e alcolica, ruvida e malinconica. Ma il modello è ancora una volta la commedia all’italiana (se vogliamo, una commedia contemporanea post-Mazzacurati). Ci piace, di Sossai, che sappia tenere l’equilibrio tra un arco narrativo in verità organizzatissimo – è una specie di Il sorpasso senza tragedia finale – e un’apparenza svagata, strampalata, tipo “buona la prima” (grana Kodak a garanzia). E le annotazioni sparse sull’Italia, alcune esilaranti e altri disperanti, funzionano tutte, anche perché il paesaggio per una volta è interrogato dai personaggi e non dal regista che lo contempla. Attori di precisione antropologica assoluta. E se dovessimo trovargli un modello culturale ed estetico, lo scopriremmo nella musica: questo è un film post-rock (vedi colonna sonora), e specificamente il post-rock anni Novanta.

L’ISOLA DI ANDREA

Per i suoi 85 anni, l’ostinato Antonio Capuano torna all’infanzia negata. Questa volta abbandona il teatro di frontiera della periferia urbana napoletana e si concentra sui più asettici spazi borghesi di una coppia che si sta separando. A rimetterci, manco a dirlo, il figlio piccolo, diverso però da altri simili del “cinema del divorzio” e dotato di un’umanità, di una resilienza e di una fantasia che lo distinguono egregiamente dagli altri. Per il resto, l’autore segue rigorosamente una serie di incontri con i mediatori civili, creando un set di riferimento per il dramma dell’elaborazione della fine. Tutto è nitido, non scolastico. E sebbene la recitazione a volte fatichi a trovare l’equilibrio tra questa nettezza formale e la mimesi psicologica, L’isola di Andrea conferma la cocciuta intelligenza emotiva di Capuano.

THE LOST BUS

Per chi è innervosito da Paul Greengrass (con il suo stile fatto di zoomate e schiaffi continui, macchina a mano tesa a occultare il fuori campo, punti di ripresa illogici e immotivati, confusione spacciata per ritmo) The Lost Bus altro non è che la conferma della sua estetica, applicata stavolta a contenuti dimenticabili. Per gli appassionati del sotto-genere “incendi devastanti al cinema”, bisogna invece ammettere che c’è pane per i loro denti, grazie a uno sforzo scenografico imponente, a una certa suspense, e a fiamme finalmente credibili, rispetto alle orribili lingue di fuoco digitali degli ultimi tempi. Sotto sotto, pur tratto da una storia vera, si tratta di una megapuntata deluxe di un qualsiasi Chicago Fire, in cui osserviamo con simpatia il divismo ormai combusto di Matthew McConaughey e qualche timida critica sociale che non offende nessuno. E il destino da piattaforma (Apple TV+) dice molto del destino del film medio.

MEMORIE, PENSIERI, SVISTE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi

OH, CANADA

Un po’ storto, claudicante, geriatrico, fragile (ma di una fragilità impossibile da respingere e non fare propria), il nuovo film di Paul Schrader – concepito in un periodo buio e tratto dal grande Russell Banks – conferma la vena creativa degli ultimi quattro lungometraggi. Strutturato in maniera al tempo stesso labirintica e meditabonda, il racconto presenta il più classico caso di narratore inaffidabile. Eppure, la confessione del morituro (un Gere sepolcrale e contrario ad American Gigolo) ruota intorno a verità crudeli che nemmeno la confusione mentale e gli errori dovuti alla demenza (che vediamo rappresentati) possono scalfire. Non è frequente vedere un film sulla codardia: Schrader è riuscito a girarlo senza compromessi.

L’ABBAGLIO

Per fortuna è stato sventato il rischio di una ripetizione di quel meta-film su commedia e dramma che si incontrano – ognuno con il suo star system – che era La stranezza. Andò prende gli stessi interpreti ma saggiamente cambia completamente scenario, spostandolo alla spedizione dei Mille e in una Sicilia vagamente viscontiana e tornatoriana. Sempre con l’idea di far convivere due film in uno (stavolta particolarmente poco correlati l’uno all’altro e un po’ farraginosi), completa una riflessione ricca ed elegante sull’Italia populista e le sue radici risorgimentali. Coraggiosi Ficarra e Picone ad accettare un ruolo che sottrae loro anche il finale dignitoso alla Grande guerra (ma il ricordo di L’ora legale, opera durissima, avrà pesato).

WOLF MAN

Doloroso passo indietro di Leigh Wannell, che con L’uomo invisibile ci aveva insegnato come si attualizza un “mostro” Universal riuscendo a parlare al nostro presente conflittuale e vittimario. Con la figura dell’uomo lupo non è riuscito a trovare altrettanta potenza, anzi i riferimenti piuttosto evidenti al “gene” tossico che gli uomini si passano di generazione in generazione sembrano forzati e pensati soprattutto per ripetere l’exploit precedente. Inoltre, mentre l’impossibilità di vedere garantiva là un campo di sperimentazione linguistico (perfettamente sfruttato), qui la metamorfosi animalesca ripete pigramente il lavoro di John Landis sul lupo mannaro o David Cronenberg sulla mosca. Non che sia un cattivo B-movie, ma ci si aspettava altro.

VIVERE

Nel blocco dei film di Kurosawa distribuito dalla Cineteca di Bologna (tra i quali spicca ovviamente I sette samurai), un posto d’onore lo merita Vivere, che all’epoca nemmeno fu distribuito. Pur già da tempo ricollocato tra i grandi classici del regista e del cinema mondiale tutto, merita una revisione per la compresenza di umanità e pessimismo. La prima deriva dalla storia di un uomo umilissimo, malato e schiacciato dalle rinunce esistenziali (da riscattare attraverso alcune scelte sorprendenti e imprevedibili) e la seconda dal ritratto devastante dell’ipocrisia omertosa del Giappone postbellico. Con una struttura narrativa molto originale (si veda la macro-sequenza finale) ogni tassello di questo puzzle esistenziale va al suo posto, senza facili lezioni morali.

NO OTHER LAND

Difficile separare il documentario del collettivo israelo-palestinese dagli avvenimenti in corso. Pur essendo una vicenda avvenuta per anni in Cisgiordania ben prima del 7 ottobre, il rischio è di considerare ciò che vediamo come un commento, un corollario, una presa di posizione che si inscrive nella battaglia ideologica. In verità, proprio la trasparenza di messa in scena e la crudezza del materiale (ciò che avviene è talmente chiaro che solo un pregiudizio politico può negarne la gravità) permettono di concentrarsi sul qui e ora di una sopraffazione lenta, incessante, cinica e clinica. Stante l’eclisse informativa e la strage di giornalisti cui abbiamo assistito in questi anni, No Other Land diventa anche un sostituto eccellente del lavoro informativo – portato alle estreme conseguenze con la messa in pericolo della propria vita.

WALLACE E GROMIT – LE PIUME DELLA VENDETTA

L’involuzione della Aardman Animations sta diventando abbastanza palese. Non sappiamo se l’adesione a Netflix e alla distribuzione direttamente su piattaforma abbia qualche cosa a che fare, ma certamente né Galline in fuga 2 né questo ritorno degli amatissimi Wallace & Gromit sono all’altezza del passato (e tanto meno dei corti e dei medi), lasciando un senso di addomesticamento. Bisogna dunque accontentarsi – e ovviamente non è poco – di una storia un po’ strampalata con un doppio nemico (il cattivo e i suoi robottini-nani da giardino), che si anima soprattutto nello slapstick d’inseguimento.