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Tag: Scott Cooper

PONTI DI CINEMA TRA STORIA E IMMAGINE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

CINQUE SECONDI

Bel terreno di elaborazione critica. I problemi sono evidenti: un arco narrativo intuibile dai primi minuti; un ritratto di gioventù che sembra ideato da Corrado Augias se avesse vent’anni più di quelli che ha; un boomerismo insistente. Ma poi (un po’ come la barca della figlia) tutto viene rovesciato: un dolore lancinante di autenticità sorprendente, come sempre in Virzì e Bruni; un giudizio morale che diventa sempre più complicato; un lavoro sulla composizione del quadro e degli spazi cinematografici che seppellisce un buon 90% dei registi italiani attuali; un’ironia intelligente, che prima intride e poi stride apposta; Mastandrea e Bruni Tedeschi mostruosi. Quindi che si fa? Si prende o si lascia? Si prende.

THE MASTERMIND

Tra alti e bassi distributivi, e forse grazie alla fama di Josh O’Connor, arriva anche in Italia la nuova fatica di Kelly Reichardt, regista di straordinaria, complicata finezza. The Mastermind (tempestivo dopo il furto al Louvre) parla di un ladro atipico da museo, una sorta di malinconico drop out che si trova a malpartito con la vita stessa, oltre che con la società. Come sempre nel cinema di Reichardt si galleggia straniti e poi si affonda pian piano. Il paesaggio e la società americani non pretendono subito il loro status simbolico ma soffocano lentamente i personaggi. Quelli secondari, poi, spalancano vite consumate che somigliano un po’ a O’Hara e un po’ a Carver. E la Hollywood anni Settanta se ne sta seduta a guardare, sorniona, evocata nel modo giusto, senza cinefilia facile.

SPRINGSTEEN

Un mezzo disastro. Purtroppo mentre James Mangold ha trovato la chiave-Dylan (conflitto folk/rock come diapason per capire una certa modernità americana), Scott Cooper non ha trovato la chiave-Boss (conflitto rock/folk – rovesciato – che non dice niente né di Bruce né dell’America). Le paturnie creative dell’artista sono raccontate come tristemente ordinarie (autore tormentato con la testa tra le mani), così come rozzi appaiono il dramma famigliare e l’immaturità sentimentale. Inoltre Cooper non sembra saper filmare la musica, finendo con lo spezzettarla e renderla inautentica (confrontare, anche in questo caso, i live di Mangold). Sembra un film sotto dettatura, e sarebbe triste scoprirlo.

IL SENTIERO AZZURRO

Sorprendente opera nomadica del regista brasiliano Gabriel Mascaro, che racconta una distopia del presente, immaginando la deportazione forzata degli anziani una volta raggiunta una certa età. Una di loro, Tereza, non ci sta e fugge in Amazzonia, intraprendendo un viaggio senza centro e senza destinazione certa. Mascaro si distingue dai registi che avrebbero scelto di girare un rassicurante feel good movie scolastico grazie a uno stile possente, nitidissimo, dove natura e animalità la fanno da padrone, insieme a un cromatismo non di facciata. Orso d’Argento alla Berlinale 2025.

IL PIANETA SELVAGGIO

Non so se definirlo addirittura un cult movie, ma certamente l’apologo di animazione ideato da Topor e firmato da René Laloux nel 1973 ha fatto un pezzetto di storia di questo genere. Sebbene plateale nella sua ansia allegorica (la lotta tra due popolazioni fantastiche in un mondo di padroni e di sopraffatti), la storia del Pianeta selvaggio è appassionante e lirica. Ma il vero tesoro, ancora oggi intatto, è il disegno (a mano) che fonde surrealismo, età dell’oro del fumetto d’autore moderno, e il tratto “psichiatrico” dell’artista Laloux in regia. Man mano che l’opera procede, la dimensione visionaria e ipnotica prevale, lasciando lo spettatore “lucidamente a bocca aperta”, se si può dire così.

SIAMO IN UN FILM DI ALBERTO SORDI?

Chi ha l’età per ricordare l’indimenticabile Storia di un italiano su Rai Uno di e con Sordi (1979-1986) ne ritroverà qualche traccia in questa carrellata critica sulla filmografia dell’attore. Grazie alla consueta cura cinefila (e storiografica) di Della Casa e Taricano, il doc è a dir poco godibile, sia per l’antologia di pezzo sordiani, anche meno noti, sia per le riflessioni a margine (pur non originalissime). Molta attenzione è riservata alla fase aurorale della carriera, ma a contare di più è la galassia delle sequenze sordiane, una playlist che si stacca dai singoli film e diventa un’altra cosa, capace di tracciare il vero ponte sullo stretto tra le isole del cinema italiano del dopoguerra.

DESIDERI MALINCONICI E GROVIGLI NELLO STOMACO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

UN BEL MATTINO

Come sarebbe stato questo struggente racconto senza Léa Seydoux? Inutile chiederselo, per fortuna lei c’è e illumina un personaggio femminile forte e al tempo fragile con ascendenze più da Téchiné che da Rohmer. Hansen-Løve a soli 40 anni ha già una filmografia ricchissima, chapeau. Dopo gli arzigogoli teorici di L’isola di Bergman, qui ritrova naturalezza, precisione e strazio, pescando nuovamente dal lato autobiografico da cui partì. E riscopre un Melvil Poupaud corpo cinefilo.

GODLAND

Quello di Hlynur Pálmason è uno dei pochi “film panici” di questi tempi. Mentre viaggi con i protagonisti nella natura più inospitale, dura e possente, ti chiedi a ogni istante come abbiano fatto a girarlo (pellicola, formato quadrato, sembra quasi di respirare la natura). Quando l’impervia missione si arresta, la storia di comunità e lacerazione convince meno, ma l’attraversamento in purezza merita generosità. Da vedere rigorosamente in originale (tutto ruota intorno al confronto linguistico tra islandese e danese).

AFTERSUN

Periodo di film scritti sull’esperienza, quasi tattili, che ti aggrovigliano lo stomaco. Fulminante esordio di Charlotte Wells, impregnato di dolore, raccontato con un minimalismo carico di malinconia e tensione difficilissimo da ottenere. Squarcio di una vacanza tra figlia pre-adolescente e padre separato dove si dice tutto tra le righe, lasciando che il momentaneo spieghi l’universale, in una terra di nessuno turistica ma dolorosa. Mettersi di traverso perché “troppo pompato” è robetta da social. Guardatelo.

THE PALE BLUE EYE

Scott Cooper si conferma il regista che poteva ma non troppo. Una filmografia carica di quasi-grandi film (Hostiles, Il fuoco della vendetta) e di terribili scivolate (Black Mass, Antlers) sfocia in questo streaming-prestige Netflix con Christian Bale e un cast di glorie sullo sfondo. Storia gothic western, con Edgar Allan Poe come personaggio (la cosa peggiore), non si può dire che sia trascurato o che ignori lo stile. Eppure rimane congelato tra le nevi che ingoiano il paesaggio.

MA NUIT

Altro film esperienziale e impalpabile. Antoinette Boulat racconta una generazione in una passeggiata notturna, con un lutto sullo sfondo (quanti lutti nei personaggi di oggi). Non sono diciottenni da Nouvelle Vague (che erano anzi più grandicelli) ma giovani melanconici in cerca di un presente che sfugge e di senso, dentro una topografia che li guarda con una qualche indifferenza. Dal confronto nasce voglia di esistere, e fare filosofia spicciola in fondo è un modo per amare la vita.

NEZOUH

Il cinema originato dalla tragica guerra in Sira (buco nero dell’umanità nel secondo decennio del secolo) comincia a slittare dal dato documentario, urgente, a quello metaforico, esistenziale. Il buco nel soffitto che si crea dopo un bombardamento squarcia un tetto di dinamiche sociali, e comunitarie, soffocanti. Troppo realismo magico, certo, ma anche un contenitore di rilievi sulle contraddizioni della ribellione (i civili come scudi umani designati, la dimensione patriarcale come unico orizzonte) non banali.

LE VELE SCARLATTE

Il più semplice dei film di Pietro Marcello, e non è detto che sia per forza un bene. Adattando con una certa libertà l’omonimo romanzo di Aleksandr Grin, l’autore conferma la voglia di fuggire dal contemporaneo, che emergeva qua e là in Martin Eden (dove lo schiacciamento del ‘900 era un anacronismo era voluto per salutare il secolo perduto). Quell’urgenza romanzesca sembra, però, attutita e ovattata, e la produzione francese rischia di imprigionarlo in un accademismo medio che è il contrario esatto della sua poetica.

CLOSE

I bambini si guardano: è proprio da uno sguardo tra ragazzini troppo indagatorio che nasce la tragedia della definizione di sé. Dhont è un tipo di autore che non lascia nulla sullo sfondo. La sua delicatezza di tocco e la naturalezza ottenuta dai giovanissimi protagonisti sono doti certe, confermate. Peccato per una narrazione così piana, e soluzioni drammaturgiche così ovvie. La presenza dolente di Émilie Dequenne (ex-Rosetta) intenerisce.