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Tag: Servant

CINEMA CHE CORRE, SERIE CHE PARLANO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE FLASH

Questo è ancora un DCU pre-Gunn, anche se ha l’aria di quello che getta il guanto di sfida alla Marvel. Ne scopiazza i multiversi in modo plateale (almeno rispetto alla Sony: qui sono i vari Batman della storia a tornare, più qualche Superman), offre retromarce cronologiche legnose – pur ispirate al Richard Donner del primo Kent di Christopher Reeve – e si salva con un doppio Flash decisamente spassoso. Che dire? Meglio dell’ultimo MCU ma – se paragonato per esempio allo SpiderVerse – sembra un pachiderma rugoso e anziano, per di più disegnato malino. Andy Muschietti comunque merita di essere seguito nei prossimi passi super-eroistici.

TYLER RAKE 2

Ecco la differenza tra l’evoluzione dell’action targata John Wick (che proprio nell’attitudine meccanica e parossistica trova il senso del presente) e quelli di Netflix. Il virtuosismo si conferma: anche nel sequel troviamo un piano-sequenza (23 minuti) vertiginoso, a dire il vero non purissimo per un paio di evidenti interventi al montaggio. Ma la domanda è: chi se ne frega? Rake non racconta nulla, né il mercenarismo post-coloniale, né l’estetica della violenza, né il nichilismo dell’eroe. La sfumatura mélo del killer con sentimenti paterni non fa che rendere il tutto ancora più increscioso. PS.: ma quanto è bella a 40 anni Golshifteh Farahani?

DENTI DA SQUALO

Siamo tornati alla famigerata “operina prima”? Non si ha nessuna voglia di essere sarcastici, sia chiaro. Eppure rimane un po’ di amaro in bocca a constatare che l’atteso esordio di un regista apprezzato nei corti (Davide Gentile) punta su una storia così basilare, su un’idea interessante ma ribadita ad nauseam spolpandone ogni possibile metafora (uno squalo intrappolato in una piscina di una villa abbandonata), su una storia di formazione delicata quanto automatica. Un po’ di voglia di spaccare tutto il giovane cinema italiano non ce l’ha mai? Giovani attori molto generosi, al contrario di Virginia Raffaele che si conferma inadatta al grande schermo.

EMILY

Della biografia di Emily Brontë (diretta da Frances O’Connor) piace che non spacci Cime tempestose per un romanzo piacevole e sentimentale. Del resto Charlotte, nella prima scena (si parte dal letto di morte di Emily), le chiede come abbia potuto ideare qualcosa di così sordido. Non a caso l’autrice è impersonata da Emma Mackey, che ricordiamo bene in Sex Education già indipendente e ruvida. Spigolosa anche qui, riesce a parare i rischi da feuilleton (e ce ne sono) con il piacere di rovinare le feste e la buona società.

PEDRO-MANIA

Tornano in sala cinque film storici di Pedro Almodóvar in versione restaurata. E cioè L’indiscreto fascino del peccato, Che ho fatto io per meritare questo?, La legge del desiderio, Donne sull’orlo di una crisi di nervi e Tacchi a spillo. Si tratta di recuperare il cinema incendiario degli esordi e capire (di nuovo) quanto fu sovversivo per il post-franchismo e per l’Europa tutta, mentre si srotolava la transizione dai blocchi ideologici a una nuova era dal futuro incerto. Il lavoro sulle identità sessuali, sulla struttura del racconto, sulla cinefilia punk, sul design e sui colori, è lo stesso che troviamo oggi più formalizzato, forse ammaestrato, talvolta potentissimo, senza il salutare (sebbene irritante) spirito anarcoide – specie nei primi tre titoli elencati.

ANIMAL HOUSE

Nella retro-mania che sta ormai seducendo sale e pubblico di questi tempi salutiamo con piacere il ritorno di un cult movie che tutti pensiamo di conoscere a menadito, forse meno noto però alle nuove generazioni. Il tempo passa e, se lo spirito irriverente e la caciara animalesca da universitari sbronzi appare inevitabilmente saccheggiata da tanti imitatori a seguire, ne guadagnano invece la lucidità politica e il neo-classicismo comico di Landis. Con attenzione al personaggio-chiave: Niedermeyer, sadico americano medio militarizzato e bifolco, che fa ridere ma fino a un certo punto. Una satira anti-Trump quasi 40 anni prima di Trump.

LA DIPLOMATICA

Prima stagione con botto finale (cliffhanger financo eccessivo) di una strana creatura che appare un frutto più creativo che algoritmico dello streaming, non foss’altro che per la luminosa, ironica, tosta e umanissima Keri Russell, che già ci aveva avvinto in The Americans. Quasi come una nemesi di quella spia russa irriducibile fino all’ultimo, qui si trova invece a fare il contrario: mediare, oliare, fare compromessi, convincere, smussare le leadership mascoline, Sullo sfondo, il multilateralismo caotico del 2023 (si parla anche di guerra in Ucraina). Divertente, intelligente, un po’ monotono nei continui confronti dialogici in interni, trova comunque il modo giusto per la serialità di processare la politica internazionale attraverso l’intensificazione narrativa.

SERVANT

Arriviamo in ritardo al bilancio della serie, conclusa qualche tempo fa dopo quattro stagioni horror e satiriche. Troppe. Ma il giochino del sadomasochismo borghese (tra food porn, Polanski, ossessione familista, rapporti di classe) ha funzionato così bene che forse possiamo chiudere un occhio sulla conclusione anodina. Come sempre accade, quando il fantastico passa dall’esitazione alla spiegazione soprannaturale, cede interesse. Rimarranno tuttavia nella memoria i ribaltamenti concettuali d’impronta Shyamalan (produttore e autore di alcuni episodi, come anche la figlia, a prima impressione regista di talento) e la sarcastica claustrofobia onirico-sociale ideata dal creatore Tony Basgallop.

CRIMINI E AMORI. IN GIRO TRA LE SERIE TV

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

OZARK 4

How to watch Ozark season 4, part 1: first seven episodes now available |  TechRadar

Quanto è difficile chiudere una serie. Ormai c’è una letteratura in merito. E anche Ozark si è incartata all’ultimo, con due minuti conclusivi esecrabili e un’ultima stagione sotto tono – oltre che contraddittoria rispetto ai personaggi maschili. Per fortuna, però, il resto ha funzionato alla grande (pur con una prima stagione preparatoria), anche grazie ai personaggi femminili – uno più riuscito dell’altro. Alla fine, questa evidente derivazione creativa da Breaking Bad (famiglia travolta dal crimine che ne diviene parte integrante) ha trovato un suo world building tra ambientazioni e temi, con un sotto-testo di capitalismo criminale che magari non sarà nuovissimo (essendo in fondo già il tema del gangster movie anni ’30) ma è stato gestito con una certa radicalità. Inoltre non va sottovalutata la pienezza narrativa: in epoca di serie slabbrate che tirano per le lunghe, ogni episodio di Ozark era fitto di avvenimenti, svolte, densità e talvolta pure troppi colpi di scena. Scelta apprezzabile.

SERVANT 3

Servant: la Stagione 3 della serie horror di Shyamalan arriva a gennaio su  Apple TV+, ecco il trailer

Dopo una seconda stagione che ha rischiato di ribattere sugli stessi temi della prima con qualche fatica nell’allargamento narrativo, la terza abbandona la sindrome di inferiorità nei confronti del capostipite – irripetibile – per lasciarsi andare in maniera più anarchica al piacere del sulfureo. L’elemento polanskiano viene messo in un frullatore, Losey fa capolino, Shyamalan ovviamente guarda dall’alto, la lotta di classe diventa pura ironia delle forme e il tema fondamentale (la famiglia e il territorio come proprietà senza vero possesso delle proprie vite) viene ribadito con grande fantasia. Alla fine la vera figura tragica è il bambino, che trascolora dall’artificiale al naturale, un “pupazzo di carne” che conta solo a seconda di chi se lo tiene, figura passiva ma reale (più o meno), impossibilitata al libero arbitrio ma centro significante di tutta la storia. Il resto è virtuosismo di scrittura e regia.

LA FANTASTICA SIGNORA MAISEL 4

The Marvelous Mrs. Maisel 4 recluta due famosi attori - Wonder Channel

Un po’ meno fantastica del solito. Qualcosa si è inceppato, o meglio si è incartato, nella splendida serie dei coniugi Palladino. A livello puramente strutturale, manca con tutta evidenza una storyline principale: forse per le precedenti esperienze degli autori, e specialmente di Amy Sherman-Palladino, questa comedy di alta qualità sta scivolando verso la sit-com dove i personaggi secondari erodono spazio ai principali e diramano linee diegetiche gestite con montaggi paralleli sempre più legnosi. Nulla di male nella sit com, ma nasconderla dentro un altro prodotto che non ne ha né i codici né le potenzialità cronometriche è un problema – e infatti molte scene prevedono (più del solito) la rappresentazione di monologhi con pubblici diversi (TV, teatro, night club) a sostituire l’effetto delle risate registrate. Succede ben poco in questi otto episodi. Detto ciò, rimane pur sempre una passerella di dialoghi frenetici, outfit clamorosi, movimenti di macchina folli, fulgore visivo. E c’è anche John Waters (giustamente).

SUMMERTIME 3

Summertime 3 su Netflix: da vedere o no? Cosa ne pensiamo

D’accordo, nessuno può spacciare questa serie per qualcosa di fondamentale. Però una piccola lancia la spezzerei. Giunta in un momento in cui molti la confrontavano erroneamente con la ben più importante Skam Italia, Summertime è una classica serie triennale Netflix “glocal”, con una valorizzazione pop del territorio locale. La Romagna sta diventando da tempo qualcosa di diverso e vendibile, anche grazie a un lavoro di cromatizzazione, globalizzazione e multiculturalismo che creatori e sceneggiatori hanno tenuto qui ben presente. L’elemento nostalgia è garantito sia dalla colonna sonora (piena di canzoni italiane del passato) sia dal recupero delle atmosfere sentimentali light alla Sapore di mare. Gli attori sono spesso incerti ma offrono una loro autenticità e la protagonista è una scoperta decisamente interessante (da vedere però se esiste in Italia un sistema plurale teen di cinema e TV che possa dare un futuro ai tanti attori emergenti che stanno emergendo). Insomma, più che il classico guilty pleasure, un normal pleasure di cui alla fine abbiamo apprezzato concept produttivo e onestà nell’offrire il disimpegno estivo come orizzonte totalizzante.

BANGLA – LA SERIE

Bangla - La serie - RaiPlay

Bella l’idea Fandango/RAI (e Raiplay) di espandere il piccolo film del 2019 in una serie più lunga, affidando il ruolo di head a Phaim Bhuiyan. Un’autorialità-mondo che guarda, pur con la prospettiva multiculturale ed “etno”, all’ironia di Zerocalcare. E la presenza di Emanuele Scaringi in co-regia (La profezia dell’armadillo) non deve essere un caso. Aggiungiamo, come modelli internazionali, altre due serie “autofiction” come Master of None di Aziz Ansari e Ramy di Ramy Youssef (quest’ultima però ben più urticante e meno vicina alle atmosfere di Bangla). Il mescolarsi di storie personali, piccole vicende da letteratura di “Torpigna” e una storyline principale con una storia d’amore un po’ inverosimile tracciano la via per un orizzonte probabilmente limitato ma da considerarsi importante per vari motivi – a cominciare dall’idea che la seconda generazione cominci a produrre narrazioni italiane.

LA MALA

La Mala', o quando Milano non era da bere. E non è detto che fosse peggio |  Rolling Stone Italia

Le docu-serie stanno crescendo vertiginosamente in questi anni, e l’alleanza con la podcast culture dedicata al crime appare evidente. La Mala racconta la Milano tra il 1970 e il 1984, in un momento di violenza urbana e criminale indicibile ma pre-esistente (o propedeutica) rispetto alla criminalità contemporanea – al tempo stesso infiltrata dalle mafie meridionali e dalla finanza offshore. L’approccio è potente: usando un ricco repertorio di polizi(ott)esco “nordista”, il solito (ma eccezionale) lavoro d’archivio e una narrativa centrata sui personaggi più carismatici, La Mala è una specie di The Irishman documentario (con lo stesso finale: gangster che, se non sono morti, finiscono in ospizio). Gli effetti di ridondanza e le costruzioni retoriche dei personaggi sono ormai vocabolario di genere. Molto divertente, molto appassionante, un po’ lunghetto, con il consueto dubbio di epicizzazione di gente disgustosa, di assassini di merda. Però funziona.