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Tag: Steve Della Casa

PONTI DI CINEMA TRA STORIA E IMMAGINE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

CINQUE SECONDI

Bel terreno di elaborazione critica. I problemi sono evidenti: un arco narrativo intuibile dai primi minuti; un ritratto di gioventù che sembra ideato da Corrado Augias se avesse vent’anni più di quelli che ha; un boomerismo insistente. Ma poi (un po’ come la barca della figlia) tutto viene rovesciato: un dolore lancinante di autenticità sorprendente, come sempre in Virzì e Bruni; un giudizio morale che diventa sempre più complicato; un lavoro sulla composizione del quadro e degli spazi cinematografici che seppellisce un buon 90% dei registi italiani attuali; un’ironia intelligente, che prima intride e poi stride apposta; Mastandrea e Bruni Tedeschi mostruosi. Quindi che si fa? Si prende o si lascia? Si prende.

THE MASTERMIND

Tra alti e bassi distributivi, e forse grazie alla fama di Josh O’Connor, arriva anche in Italia la nuova fatica di Kelly Reichardt, regista di straordinaria, complicata finezza. The Mastermind (tempestivo dopo il furto al Louvre) parla di un ladro atipico da museo, una sorta di malinconico drop out che si trova a malpartito con la vita stessa, oltre che con la società. Come sempre nel cinema di Reichardt si galleggia straniti e poi si affonda pian piano. Il paesaggio e la società americani non pretendono subito il loro status simbolico ma soffocano lentamente i personaggi. Quelli secondari, poi, spalancano vite consumate che somigliano un po’ a O’Hara e un po’ a Carver. E la Hollywood anni Settanta se ne sta seduta a guardare, sorniona, evocata nel modo giusto, senza cinefilia facile.

SPRINGSTEEN

Un mezzo disastro. Purtroppo mentre James Mangold ha trovato la chiave-Dylan (conflitto folk/rock come diapason per capire una certa modernità americana), Scott Cooper non ha trovato la chiave-Boss (conflitto rock/folk – rovesciato – che non dice niente né di Bruce né dell’America). Le paturnie creative dell’artista sono raccontate come tristemente ordinarie (autore tormentato con la testa tra le mani), così come rozzi appaiono il dramma famigliare e l’immaturità sentimentale. Inoltre Cooper non sembra saper filmare la musica, finendo con lo spezzettarla e renderla inautentica (confrontare, anche in questo caso, i live di Mangold). Sembra un film sotto dettatura, e sarebbe triste scoprirlo.

IL SENTIERO AZZURRO

Sorprendente opera nomadica del regista brasiliano Gabriel Mascaro, che racconta una distopia del presente, immaginando la deportazione forzata degli anziani una volta raggiunta una certa età. Una di loro, Tereza, non ci sta e fugge in Amazzonia, intraprendendo un viaggio senza centro e senza destinazione certa. Mascaro si distingue dai registi che avrebbero scelto di girare un rassicurante feel good movie scolastico grazie a uno stile possente, nitidissimo, dove natura e animalità la fanno da padrone, insieme a un cromatismo non di facciata. Orso d’Argento alla Berlinale 2025.

IL PIANETA SELVAGGIO

Non so se definirlo addirittura un cult movie, ma certamente l’apologo di animazione ideato da Topor e firmato da René Laloux nel 1973 ha fatto un pezzetto di storia di questo genere. Sebbene plateale nella sua ansia allegorica (la lotta tra due popolazioni fantastiche in un mondo di padroni e di sopraffatti), la storia del Pianeta selvaggio è appassionante e lirica. Ma il vero tesoro, ancora oggi intatto, è il disegno (a mano) che fonde surrealismo, età dell’oro del fumetto d’autore moderno, e il tratto “psichiatrico” dell’artista Laloux in regia. Man mano che l’opera procede, la dimensione visionaria e ipnotica prevale, lasciando lo spettatore “lucidamente a bocca aperta”, se si può dire così.

SIAMO IN UN FILM DI ALBERTO SORDI?

Chi ha l’età per ricordare l’indimenticabile Storia di un italiano su Rai Uno di e con Sordi (1979-1986) ne ritroverà qualche traccia in questa carrellata critica sulla filmografia dell’attore. Grazie alla consueta cura cinefila (e storiografica) di Della Casa e Taricano, il doc è a dir poco godibile, sia per l’antologia di pezzo sordiani, anche meno noti, sia per le riflessioni a margine (pur non originalissime). Molta attenzione è riservata alla fase aurorale della carriera, ma a contare di più è la galassia delle sequenze sordiane, una playlist che si stacca dai singoli film e diventa un’altra cosa, capace di tracciare il vero ponte sullo stretto tra le isole del cinema italiano del dopoguerra.