APPARENZE, RIVELAZIONI, MASCHERE
Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
BLACK BAG

A parte l’ormai sorprendente evoluzione di Fassbender a corpo spionistico (vedi anche The Killer e The Agency), siamo di fronte all’ennesimo mini-congegno di Soderbergh per prendere le misure del presente americano. Tecnologia e denaro, caccia all’uomo e psicanalisi si intrecciano in un (in)gorgo paranoide che funziona a primo livello come un thriller da piattaforma (ma fatto bene) e a un secondo livello come una commedia sentimentale cinefila. L’Hitchcock rosa, il jeu de massacre verbale di Pinter, il techno-noir di De Palma si intrecciano in qualcosa di straordinariamente mentale. Qualcosa di cui non ti accorgi, perché ha quella trasparente sottigliezza che diventa all’improvviso un vetro oscurato (come accade in una scena-chiave).
I PECCATORI

E chi se lo aspettava un exploit di questo tipo da Ryan Coogler? Ottimo regista, per carità, soprattutto grazie a Creed (per chi scrive, grande gesto politico di “slittamento” di una saga bianca alla riconfigurazione black). Forse per uscire dal washing afro della Disney con gli annacquati Black Panther, Coogler radicalizza la sua visione della cultura razzista americana. Mescolando musical, horror e gangster movie con grande fluidità, immagina un blues separazionista al contrario, dove una situazione curiosamente non dissimile (mutatis mutandis) a Jimmy’s Hall di Loach innesca forti tensioni sociali ed etniche. Sontuoso, corporeo, sanguigno con lampi di ironia. La visione è forse fin troppo incompromissoria. Ma chi siamo noi per lamentarci?
C’EST PAS MOI

Carax godardeggia? Fino a un certo punto, anche perché l’autore sembra perfettamente consapevole dell’influenza di Histoire(s) du Cinéma, esplicitandola. Ma qui la riscrittura di sé stessi e la riflessione storico-critica assumono aspetti penetranti e particolari (si pensi alla terrificante favola dello sterminio raccontata dalla mamma ai suoi bimbi). Per il resto, c’è un godimento innegabile nel flusso di immagini, tra auto-remake e found footage, video-essay e rimuginante teoria dell’immagine. Il formato da mediometraggio è perfetto, sebbene l’apparente natura centrifuga scoraggi l’idea di un minutaggio chirurgico. Si vede su IWonderfull e in poche sale selezionate.
SILENT TRILOGY

Chi come il sottoscritto lo ha visto con accompagnamento live lo ha esperito nel modo giusto. Ovviamente per una distribuzione più ampia (del progetto Cinema Ritrovato al Cinema), non era possibile. In ogni caso, la trilogia di corti muti (girati durante vari anni) aiuta una volta di più – dopo Hazanavicius, Kaurismaki e altri – a rilanciare in sala di prima visione il linguaggio del cinema senza parole. Certo, tutto rischia di sembrare una celia, e non sempre in Juho Kuosmanen si percepisce una profonda conoscenza dello spirito più puro del silent cinema, ma il viaggio vale anche solo per il sentimento della curiosità.
IL QUADRO RUBATO

Dio benedica Pascal Bonitzer. Critico, teorico, sceneggiatore, regista, ossessionato dall’impurità pittorica del cinema (si legga il suo Décadrages di 40 anni fa, tuttora brillantissimo). E di pittura si parla anche in questa vicenda di un dipinto perduto che si finge di ritrovare (I girasoli di Egon Schiele, dato per disperso nel 1939). Il mistero artistico gli interessa, le figure umane che ci girano intorno di più. Bonitzer esprime una pratica cinematografica flagrante, “parole et image”, e mentre tutto scorre come brezza s’infilano temi storici possenti e sfumature umane profonde. Una specie di “studio sul personaggio” tipico della sua filmografia, che tradisce il consueto legame con l’autore per il quale ha lavorato per anni, Jacques Rivette.