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Tag: Steven Soderbergh

APPARENZE, RIVELAZIONI, MASCHERE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

BLACK BAG

A parte l’ormai sorprendente evoluzione di Fassbender a corpo spionistico (vedi anche The Killer e The Agency), siamo di fronte all’ennesimo mini-congegno di Soderbergh per prendere le misure del presente americano. Tecnologia e denaro, caccia all’uomo e psicanalisi si intrecciano in un (in)gorgo paranoide che funziona a primo livello come un thriller da piattaforma (ma fatto bene) e a un secondo livello come una commedia sentimentale cinefila. L’Hitchcock rosa, il jeu de massacre verbale di Pinter, il techno-noir di De Palma si intrecciano in qualcosa di straordinariamente mentale. Qualcosa di cui non ti accorgi, perché ha quella trasparente sottigliezza che diventa all’improvviso un vetro oscurato (come accade in una scena-chiave).

I PECCATORI

E chi se lo aspettava un exploit di questo tipo da Ryan Coogler? Ottimo regista, per carità, soprattutto grazie a Creed (per chi scrive, grande gesto politico di “slittamento” di una saga bianca alla riconfigurazione black). Forse per uscire dal washing afro della Disney con gli annacquati Black Panther, Coogler radicalizza la sua visione della cultura razzista americana. Mescolando musical, horror e gangster movie con grande fluidità, immagina un blues separazionista al contrario, dove una situazione curiosamente non dissimile (mutatis mutandis) a Jimmy’s Hall di Loach innesca forti tensioni sociali ed etniche. Sontuoso, corporeo, sanguigno con lampi di ironia. La visione è forse fin troppo incompromissoria. Ma chi siamo noi per lamentarci?

C’EST PAS MOI

Carax godardeggia? Fino a un certo punto, anche perché l’autore sembra perfettamente consapevole dell’influenza di Histoire(s) du Cinéma, esplicitandola. Ma qui la riscrittura di sé stessi e la riflessione storico-critica assumono aspetti penetranti e particolari (si pensi alla terrificante favola dello sterminio raccontata dalla mamma ai suoi bimbi). Per il resto, c’è un godimento innegabile nel flusso di immagini, tra auto-remake e found footage, video-essay e rimuginante teoria dell’immagine. Il formato da mediometraggio è perfetto, sebbene l’apparente natura centrifuga scoraggi l’idea di un minutaggio chirurgico. Si vede su IWonderfull e in poche sale selezionate.

SILENT TRILOGY

Chi come il sottoscritto lo ha visto con accompagnamento live lo ha esperito nel modo giusto. Ovviamente per una distribuzione più ampia (del progetto Cinema Ritrovato al Cinema), non era possibile. In ogni caso, la trilogia di corti muti (girati durante vari anni) aiuta una volta di più – dopo Hazanavicius, Kaurismaki e altri – a rilanciare in sala di prima visione il linguaggio del cinema senza parole. Certo, tutto rischia di sembrare una celia, e non sempre in Juho Kuosmanen si percepisce una profonda conoscenza dello spirito più puro del silent cinema, ma il viaggio vale anche solo per il sentimento della curiosità.

IL QUADRO RUBATO

Dio benedica Pascal Bonitzer. Critico, teorico, sceneggiatore, regista, ossessionato dall’impurità pittorica del cinema (si legga il suo Décadrages di 40 anni fa, tuttora brillantissimo). E di pittura si parla anche in questa vicenda di un dipinto perduto che si finge di ritrovare (I girasoli di Egon Schiele, dato per disperso nel 1939). Il mistero artistico gli interessa, le figure umane che ci girano intorno di più. Bonitzer esprime una pratica cinematografica flagrante, “parole et image”, e mentre tutto scorre come brezza s’infilano temi storici possenti e sfumature umane profonde. Una specie di “studio sul personaggio” tipico della sua filmografia, che tradisce il consueto legame con l’autore per il quale ha lavorato per anni, Jacques Rivette.

AUTORI TRA STRADE, LINEE E CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

L’INNOCENTE

Il miglior film di Louis Garrel da regista non somiglia in nulla (giustamente) a quelli del papà. Il modello è il cinema borghese romantico, ironico e con venature di poliziesco di una certa tendenza francese anni ’70 (un mix consapevole di Sautet, Zidi, Lautner e altri). Se lui è simpatico ma gli romperesti il muso, trionfano piuttosto Anouk Grinberg e Noémie Berlant, esilaranti e passionali. Una prova di maturità in leggerezza, segno di intelligenza.

AUDITION

Rivedere Audition oggi non toglie “peso” all’esperienza, anzi. Cresce la politicità del racconto di Takashi Miike, mentre la violenza occupa un gradino meno essenziale rispetto al discorso che era necessario fare negli anni Novanta (ah, quanto ci mancano, cinematograficamente parlando). Più in generale, pur non essendo il titolo più importante di una filmografia caotica e dalle gerarchie imprendibili, c’è un motivo se dopo un quarto di secolo ci si dà la pena di ridistribuirlo.

STRADE PERDUTE

Si temeva che sul grande schermo il restauro 4K potesse smarrire la densità dei neri, ma per fortuna – visto che Lynch ha supervisionato il lavoro – continua ad essere il buio più materico e bello mai visto nel cinema contemporaneo. Oggi, in epoca bacchettona, arriva alle viscere soprattutto come opera sensuale, con Patricia Arquette vero perturbante erotico irriducibile, vero fantasma del desiderio nella totentanz freudiana che maestro David apparecchia per noi.

COPENHAGEN COWBOY

A Lynch deve molto anche Nicolas Winding Refn (anzi, NWR) con la sua sinuosissima serie Nerflix girata in Danimarca. Non estrema, osata e delirante come Too Old to Die Young, che era una specie di Scorpio Rising di ore e ore, Copenhagen Cowboy ne mantiene comunque l’idea di base: la serialità streaming può anche essere arte contemporanea in vitro, video-installazione in coma narrativo, tra Bruce Lee e la Marvel, tra Damien Hirst e il fashion film, tra le carezze techno di Cliff Martinez e il grugnito horror dei maiali affamati di carne umana. Fuck yeah.

KIMI

A pagamento su piattaforma arriva la penultima fatica di Soderbergh, nuova variazione claustrofobica sul rapporto tra uomo, capitale, architettura sociale e dispositivi di controllo. Leggermente meno ispirato del solito (a cominciare dal tema virale non sfruttato alle consuete altezze), rimane in ogni caso un sontuoso esempio di cinema da camera, di pressione psicologico-stilistica in spazi ristretti, un meta-film su Soderbergh autore solitario, al limite, confinato.

TRIESTE É BELLA DI NOTTE

Conquistato sul campo, il rispetto di cui gode Andrea Segre con i suoi documentari viene confermato da questa indagine sull’immigrazione della rotta balcanica. Utile, perché l’opinione pubblica si concentra sul Mediterraneo, e qui emergono storie atroci e ingiustizie ulceranti. Interessante la questione dei regolamenti, affrontata con precisione: i migranti accusati di illegalità sono respinti il più delle volte infrangendo la legge da parte dello Stato italiano.

LA LIGNE

Ossessionata dai segni sociali, dai confini e dai perimetri, Ursula Meier mette in scena una livida e sarcastica storia di tensione madre/figlia. Comincia con una magistrale scena di lite domestica, prosegue come ritratto di una giovane donna dal cazzotto facile e dal carattere spinoso, evolve come un mélo surreale, finisce ottenendo lacrime musicali. Vista la materia, avremmo sognato un minor auto-controllo registico su tutta la materia isterica, ma avercene di autrici così lucide.

IL MOMENTO IRRAPPRESENTABILE IN “CONTAGION”

Nuova puntata dei recuperi di articoli del passato (questo pezzo proviene dal mensile “Duellanti”, oggi cessato): rileggendo le righe interpretative sulle metafore del virus e sull’irrappresentabilità del contagio, ho considerato curioso ripubblicare queste righe sul film di Steven Soderbergh – ho solamente eliminato alcuni commenti su contesti di cronaca e politica di quel momento.

CONTAGION

Bisogna ammettere che Steven Soderbergh ha compiuto un viaggio molto lungo all’interno della critica cinefila. In molti, anche il sottoscritto, lo hanno accusato a lungo di furbizia, finta indipendenza, spocchia autoriale. Ora, dopo alcuni film epocali per il cinema contemporaneo – tali sono sia Che sia The Informant – il regista americano giunge a capitalizzare la sua estetica e la sua profonda politicità grazie a Contagion.

Perché Contagion sarebbe così importante? Per diversi motivi. Anzitutto, va ammesso onestamente che l’opzione di valore in questo caso decide di non tenere conto di alcuni squilibri strutturali, notati da molti critici – ad esempio la claudicante linea narrativa con Marion Cotillard ostaggio dei contadini asiatici, oppure la reticenza nei confronti di quel che avviene ai vicini di casa di Matt Damon, e altro ancora. Più macroscopicamente, tuttavia, Soderbergh supera di slancio questi sia pur seccanti problemi di scrittura, grazie a un’ipotesi di cinema di flagranza teorica sorprendente. Il tema del virus, che rischiava di essere ormai bollito e ribollito da film sempre più inetti e anodini (compreso il remake del seminale La città verrà distrutta all’alba), viene rilanciato con forza puntando tutto sulla metafora del contagio economico. Le borse e le merci ormai abitano un mondo reticolare dove, paradossalmente, tutto è in relazione di causa ed effetto proprio nel momento in cui tutto è atomizzato, senza più modelli sociali o ideologici che tengano (sia in Occidente sia nel mondo musulmano, come noto attraversato da onde anomale gigantesche). 

Il virus, ovviamente, viaggia rapidissimo insieme alle persone. E può annidarsi negli aeroporti e sui velivoli con nocività assai maggiore dei kamikaze dell’11 settembre. C’è di più, però. Soderbgerh, che non vuole (e forse non può, per motivi di budget) mettere in scena la consueta apocalisse urbana e spettacolare, flette sulla tecnologia il problema della rappresentazione. Il virus è un’entità concreta – le persone si ammalano e muoiono a migliaia – ma noi vediamo i personaggi quasi sempre alle prese con schermi, laptop, smartphone, video di sorveglianza, registrazioni digitali e analisi computerizzate. A sua volta la messa in scena, su un tappeto musicale artificiale, prosegue l’ossessiva ricerca di Soderbergh (uno dei pochi insieme a Michael Mann) sulla ripresa digitale, che garantisce una densificazione dello spazio rappresentato e, con le luci giuste, crea un effetto museale e video-artistico ad ogni ambiente inquadrato.

Siamo dentro un cinema ormai tecnologizzato in ogni sua particella: il film è girato in digitale, proiettato in digitale nei multiplex, rappresenta un mondo digitale, musicato digitalmente, ma ha a che fare con tosse, sputi, vomito, sudore, influenza e morte. Soderbergh ci restituisce – con un’allegoria che somiglia molto a un paradosso – la crisi economica sotto forma di catastrofe umanitaria. La tecnologia modifica i nostri comportamenti, la nostra società, la cultura e anche la natura, oltre ovviamente a modificare il cinema. La virtualizzazione delle procedure non significa però che la realtà sia una chimera inafferrabile, è anzi sempre lì a chiederci il conto, non fosse altro perché si muore, e si muore per le crisi economiche e per la guerre, per le carestie e per le dittature, e persino per tutte queste cose insieme, come nella tragedia somala.

Lo spiegano anche le svolte narrative del film. Contagion è uno dei pochi “virali” dove il governo si comporta tutto sommato correttamente. A parte quando gioca sporco con il placebo scambiato per antidoto allo scopo di dissequestrare la collega rapita, ci troviamo di fronte a istituzioni che seguono i protocolli, se divulgano informazioni segrete lo fanno in buona fede, e cercano di affrontare il dramma nella maniera più concreta. Il blogger antagonista ci fa una figura a dir poco sconcertante (anche se allo spettatore complottista Soderbergh concede la chance di credergli fino alla fine), e – con buona pace di chi trovasse in Contagion un discorso reazionario e pro-corporazioni – tutte le soluzioni alternative e miracolose si riducono a nulla.

Perché Soderbergh spazza via la tradizionale diffidenza del virale nei confronti delle istituzioni? Per realismo, appunto. E per ricordarci che i problemi stanno a monte. Il finale del film, in cui vediamo il pipistrello che contagia il maiale, funziona come causa primaria. Tutto nasce così: dal funzionamento industriale del capitalismo (e, aggiungiamo noi vegetariani, dallo sfruttamento intensivo dell’uomo sull’animale). Quando poi le crisi esplodono non c’è più modo di contenerle. Ci spazzano via in un attimo.

E Contagion ci ricorda anche che i protocolli, i sistemi governativi, le regole internazionali sono lente. Di fronte a una pandemia o a un default contagioso, la crisi viaggia a minuti mentre le contromosse necessitano di mesi. E non c’è nulla di diverso che si possa fare, almeno fino a che queste stesse istituzioni regolano il nostro mondo. Ecco perché Contagion esclude ogni elemento figurativo e narrativo di stampo religioso, magico o fantascientifico, per privilegiare invece la dimensione logica, etica, e di fatto laica del suo exemplum.

La crisi, qualunque essa sia, appare irrappresentabile. Come si capisce bene dalla sequenza più bella del film, quella in cui i ricercatori cercano di osservare – nel video di sorveglianza che riprende Gwyneth Paltrow, prima vittima – il momento esatto in cui, con un soffio o un contatto, la donna potrebbe aver contagiato qualcun altro. Ma il virus non ha una forma, e le telecamere, anche se ad alta definizione, non riescono a catturarlo. Il paradosso di Soderbergh: tra titoli tossici e malattie aeree, il mondo non ha più una materia cui fare riferimento, eppure il nostro corpo è ancora al centro della catastrofe.