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Tag: Todd Haynes

LO SPECCHIO SCURO DEL CINEMA FLAGRANTE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

MAY DECEMBER

Con i consueti fantasmi di Orson Welles e di Douglas Sirk a inseguirlo, Todd Haynes escogita la perfetta trappola cinefila: fare un women movie apparentemente middlebrow per poi procedere a un’analisi culturale e pulsionale estremissima. Il confronto “grandattoriale” tra Julianne Moore e Nathalie Portman, con tutti gli eccessi recitativi che si porta volontariamente dietro, scandaglia ogni tipo di perversione corporea, ageistica, sessuale, tra sociopatia e devianza, in un gioco a rimpiattino tra abusi, manipolazioni, tossicità ed estrema, infinita solitudine. Pur gravato qua e là da elementi di sceneggiatura pesantemente simbolici (la metafora della caccia e quella della crisalide), May December è una specie di pièce sulla provincia molecolare americana, e la messa in scena di Haynes nega e raffredda il mélo con capacità clinica (come se Robert Altman girasse il remake di Eva contro Eva).

PRISCILLA

Ritorno in grande stile per Sofia Coppola dopo il trattenuto On the Rocks. L’analisi biografica degli anni giovanili di Priscilla ed Elvis, tutti raccontati dal punto di vista di lei, non soltanto esprimono una rigorosa coerenza d’autore (evidenti le parentele teen con Maria Antonietta, The Bling Ring, Somewhere), ma anche una formidabile coerenza tra discorso e forme espressive. Da una parte, infatti, Coppola smonta pezzo pezzo la mascolinità di Elvis raccontando i vari stadi della manipolazione di genere e dell’abuso di potere psicologico (grooming, mansplaining, gaslighting, ecc.); dall’altro questa disparità assume i connotati di una favola mostruosa con sproporzioni eccessive (l’altezza dei due), ossessioni dello spazio interno (la camera da letto come prigione), giochi di ruolo orrorifici (le mascherate di Elvis come travestimenti psicotici del carnefice), passerelle di sguardi (Priscilla alle prese con l’osservazione collettiva dell’ensemble maschile di amici di Presley). Acutissimo, inoltre, il discorso sulla celebrità vista dall’interno di un mondo domestico, dove non si è abbastanza vicini alla stella per goderne la luce (al massimo per “tenere acceso il focolare”) ma non abbastanza lontani per evitarne le conseguenze nefaste.

KUNG FU PANDA 4

Ce n’era bisogno? Decisamente no. Funziona? Decisamente sì. L’animazione blockbuster sta facendo una grande fatica – complici pandemia e destrutturazione del mercato family – a costruire nuovi prototipi (leggi: franchise). E quindi ecco rispolverati i campioni d’antan. Ma, una volta appurata la natura puramente derivativa (“trovate una qualsiasi idea pur di riportare Po sullo schermo entro il 2024!”), bisogna ammettere che si riconferma l’abilità in scrittura, più che nel reparto grafico, degli autori: personaggi riusciti, gag spesso esilaranti, citazioni gustose (la baracca traballante di La febbre dell’oro), qualche allusione al populismo e al trasformismo del caos geopolitico internazionale. Certo però che i tempi in cui Kung Fu Panda stimolava le riflessioni di Slavoj Žižek son belli che andati.

UN MONDO A PARTE

Se Bisio ha interpretato il desiderio di negoziazione geo-culturale (Benvenuti al Sud e Benvenuti al Nord) e Antonio Albanese quello della riconciliazione tra élite e popolo (Un gatto in tangenziale uno e due), ora quest’ultimo sloggia il primo nel suo stesso territorio. Più che settentrione e meridione, però, qui si tratta di “nuovo localismo”, con un confronto tra città e piccolo borgo, e annessa questione scolastica. Scoperte le formule (che, ci mancherebbe, devono esserci nella commedia), si può apprezzare uno script assai brillante, che vive del rigenerante apporto di caratteri e caratteristi abruzzesi, con una serie di gag, parodie sociali e paradossi culturali ingegnosi. Al solito, quando arriva il momento della pedagogia dei sentimenti, si eccede e il terzo atto diventa un percorso di riparazione ai rischi di lacerazione satirica del resto del film. Pur rimanendo curiosi di sapere cosa ne avrebbero fatto con più cattiveria i maestri della commedia all’italiana (magari con un Manfredi perfido), si dia il giusto merito a Riccardo Milani, autore lucidissimo di prodotti dignitosi e necessari al box office.

GODZILLA E KONG

Il Monsterverse di Legendary e Warner prosegue la sua corsa, riservando alle serie streaming qualche cura narrativa in più (il non disprezzabile Monarch) e lasciando alla sala cinematografica lo spettacolo villano del wrestling tra mega-mostri. Nulla di male – tanto più che, come ci spiegano gli analisti, si tratta di un cinema un po’ orfano, che porta in sala cellule dormienti di spettatori non sempre invogliati dalla formula del blockbuster d’autore stile Villeneuve. Qui si va giù pesante, insomma, rozzi quanto basta per non imboccare il sentiero della metafora ideologica (che pure ci tenterebbe). Piace, di Adam Wingard, lo sprezzo per i freni inibitori e la passionaccia per l’avventura esotica, con tanto di regni perduti, civiltà sepolte, varietà fantasiosa di creature (tra cui un messianico Mothra). Momenti di assurdo volontario: Kong dal dentista e Godzilla che ronfa al Colosseo.

IL TEOREMA DI MARGHERITA

I feelgood movies esistono anche nel cinema d’autore. Lo dimostra il raccontino su matematica e sentimenti di Anna Novion, che si situa nel sottogenere del cinema “aritmetico” con tutti i suoi stereotipi kitsch: la protagonista secchiona, la sfida risolutiva di stampo enigmistico ed epico, l’intreccio di amore e numeri primi, e tutto il bric-à-brac metaforico cui siamo abituati da anni. Non si vede certo con dispiacere, a patto di non farsi buggerare dalla seriosità e prenderlo alla stessa stregua di un film con mostri mitologici che si prendono a botte, con un secchio di popcorn in grembo.

ANOTHER END

Il tiro al piccione sulla fantascienza meditativa di Piero Messina è stato un po’ impietoso. In verità, sebbene derivata da una lunga serie di precedenti (a cominciare da Alps di Lanthimos), la storia dei corpi vicari che prolungano l’esperienza di chi vive un lutto ha un discreto tasso di densità narrativa. Forse c’era bisogno del coraggio di andare fino in fondo – una “commedia del rimatrimonio” con una moglie morta e un corpo sostitutivo – ma anche in questo caso il dialogo sentimentale fra trapassati non è cosa che si vede tutti i giorni. Lo stile è quello del cinema d’autore internazionale co-prodotto, con quell’idea che la fantascienza filosofica dev’essere per forza geometrica a glaciale.

ORLANDO MY POLITICAL BIOGRAPHY

Paul B. Preciado è uno di quei pochi pensatori inarrestabili che si merita l’abusato detto che “se non ci fosse bisognerebbe inventarlo”. E, a proposito di invenzione, questo film/intervista/performance/documentario/saggio è inclassificabile e forse anche un pizzico sottovalutato. Partendo dal “mistero teorico” del romanzo di Virginia Woolf (un testo di enorme complessità che però è capace quasi cent’anni dopo di parlare a tutte le identità non binarie di oggi), lo scrittore e filosofo imbastisce una galleria di personaggi più veri del vero, dando loro voce e facendo una specie di lezione peer to peer di presa di parola biopolitica. Magari non un turning point ma un testo dove la densità teorica sfocia in flagrante trasparenza cinematografica.

ARTI, MUSICHE E PASSIONI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

LA PERSONA PEGGIORE DEL MONDO

La Persona Peggiore del Mondo | La recensione del film di Joachim Trier

Certo che il sistema dei premi ai festival è veramente mercuriale e imprevedibile. Consegnare a Cannes una Palma per miglior attrice alla pur simpatica e sottile Renate Reinsve per questo dramedy norvegese lascia a dir poco sorpresi. Joachim Trier è un autore singolare, che mi ricorda il pilota di Formula Uno Coulthard, capace di essere incredibilmente rapido in alcuni momenti e poi rovinare tutto con scelte discutibili e ingenue. Tutta la filmografia di Trier è fatta così (anche il migliore dei suoi titoli, Thelma del 2017). In questo caso, dopo una prima ora brillante ed esilarante su una trentenne incasinata e incompiuta, cugina alla lontana da Fleabag, con osservazioni acutissime sulla cultura contemporanea, la storia va ad addormentarsi in un melodramma da malattia poco riuscito e soprattutto affatto risolto.

ULTIMA NOTTE A SOHO

Last Night in Soho

Film cinefilo per eccellenza di queste settimane, il vorticoso vintage horror di Edgar Wright conferma qualche miopia del nostro sguardo su di lui. Come se rifuggisse il “grande cinema” e volesse sgonfiare le costruzioni da lui stesso architettate attraverso il primato del divertissement, Wright disarma gli analisti. In verità la sua è una pratica cinematografica coerentissima, dove di volta in volta si ricorre alla parodia o ai generi per nascondere operazioni sottilissime. Come questa, dove l’amore per il passato, con tutto il concerto di citazioni viventi et similia, viene messo al rogo (letteralmente): un conto sono i prodotti culturali da rievocare, un conto è la storia sociale (da non falsificare). Gli omaggi ad Argento, Fulci, Lynch, Russell sono i più impliciti (e potenti) e il film sembra una versione più pop e meno morbosa di Neon Demon.

NON CADRÀ PIÙ LA NEVE

Non cadrà più la neve - Film (2020) - MYmovies.it

Si trova sulla piattaforma IWonderfull il nuovo film di Małgorzata Szumowska e Michał Englert: è la storia di Zenia, uomo misterioso proveniente dalle radiazioni di Chernobyl che fa il massaggiatore-ipnotista per persone alto-borghesi in Polonia. Annoiate da tutto e apatiche, vedono nell’arrivo dell’uomo una novità salvifica. E lui si trasforma in un guru dentro un meccanismo a metà tra Teorema di Pasolini, il realismo magico del cinema est-europeo e Edward mani di forbice. La cosa migliore, come in altre prove di Szumowska, è lo humour fulminante, qui accostato a una strana anempatia “calda” nei confronti di un protagonista ermetico che – pur dominando la materia corporea con le mani – sembra la vera vittima, l’outsider destinato all’invisibilità. Peccato per i vezzi del “cinema da festival” (forti simbolismi, ralenti, oggettive irreali, movimenti di macchina “significanti” ecc).

MOMENTS LIKE THIS NEVER LAST

MOMENTS LIKE THIS NEVER LAST - DOC NYC

Uscito su MUBI a novembre, il documentario di Cheryl Dunn è dedicato all’artista newyorkese Dash Snow. Probabilmente non molto noto a queste latitudini, Dash – morto giovane – è stato artista, fotografo, graffitaro, creatore di contenuti grafici e pittorici, provocatore e sperimentatore urbano. New York è stato il suo terreno di conquista e di espressione, lui che veniva da un’agiata famiglia borghese – ma le mele notoriamente possono cadere molto lontane dall’albero. Il doc è un po’ bifronte: da una parte affascina per come evoca tutto il contesto di un underground per una volta non “Seventies” ma recente, legato allo spirito isterico del post-11 settembre. Dall’altra non sempre coglie l’occasione per un affresco completo e possente, depotenziando found footage e altri materiali in nome del dramma personale. In ogni caso vale un giro nel rollercoaster di Dash.

3/19

3/19: il fato vince sull'eterna lotta tra il buono e il cattivo | Recensione

Come altri autori, anzi inventori, del nuovo cinema italiano degli anni Ottanta/Novanta, Silvio Soldini è diventato un autore apolide. L’habitat di pubblico metropolitano e critica desiderosa di novità nazionali che lo seguiva si è sbriciolato. E in quest’epoca di distribuzione frenetica, un film come questo – dominato dalla sensibilità di una delle nostre attrici più intense, Kasja Smutniak – rischia di diventare carta da parati. Il tema della lenta erosione della solidarietà sociale ai danni dell’ambiente altoborghese di provenienza è un topos da Europa ’51 in poi. Oggi suona risaputo, come del resto la Milano metallica pur rappresentata con raffinatezza. Funziona di più come mélo trattenuto, sebbene la morte solitaria del povero diavolo (big bang psicologico simile a Tre piani) avrebbe meritato più “politica”.

THE VELVET UNDERGROUND

The Velvet Undeground – La recensione

L’amore per la storia del rock di Todd Haynes è ben nota e ha ispirato almeno due gran bei film tra i suoi, Velvet Goldmine e Io non sono qui (Glam e Dylan, e il rischio di fare pasticci era altissimo). Questo è un documentario che si trova su Apple TV+, dopo una recente e fugacissima apparizione in sala. Haynes non è certo tipo da teste parlanti, interviste con luce smarmellata e pedagogia d’accatto. Infatti cerca l’impresa più impervia: fare un doc che somiglia alla musica dei Velvet, stridente e profondo, fastidioso e geniale. Da una parte ci sono split screen, found footage, documenti rari, testimonianze e voci over talvolta stranianti; dall’altra una ricostruzione meticolosa del mito (compresi Warhol e Nico). Evviva, anche se non la consiglio come visione da domenica pomeriggio sul divano. Massimo rispetto. Peccato rischi di annegare nell’oceano streaming.