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Tag: Un tipo imprevedibile 2

IMMAGINI DI FERRAGOSTO

WEAPONS

Opera seconda di assoluto spessore per Zach Cregger, dopo l’acerbo ma potente Barbarian. Cregger, autore dello script e co-autore anche delle sorprendenti musiche, attraverso un mosaico di punti di vista dalla lunga tradizione cinematografica compone un “horror puzzle” intrigante. Non si tratta solo di ingegno nel costruire la macchina. Weapons funziona sia nel reperire la dimensione stregonesca delle piccola comunità statunitensi sia per un – magari più facile – discorso sull’aggressività della nazione e sugli incantesimi ideologici che spingono i cittadini a odiarsi. Con Ti West, Parker Finn e pochi altri, Cregger potrebbe dare un seguito al boom di Aster, Eggers, Peele di qualche anno fa nel miglior mainstream horror.

BRING HER BACK

Discorso opposto per i fratelli Philippou. Dopo Talk to Me (grande concept, realizzazione riuscita a metà), l’opera seconda si inverte (concept debole, realizzazione raffinata). Purtroppo l’idea molto legnosa e involuta di una complicata trasmigrazione di anime attraverso un corpo vicario viene differita e annacquata da una scrittura molto incerta (basti dire che il punto di vista narrativo, centrato sulle vittime, slitta a casaccio ogni tanto, alla bisogna). L’idea di upgrade artistico è centrata sulla performance “d’essai” di Sally Hawkins (stridente più che inquietante), mentre la claustrofobia della casa in cui la maggior parte del film si svolge dovrebbe fare il resto. Alla fine un meccanismo che gira un po’ a vuoto, senza una grande idea di cinema horror alla base.

IO SONO NESSUNO 2

Trasformazione interessante, quella di Bob Odenkirk, che rischiava di essere tumulato nel personaggio di Saul Goodman e si è scavato invece una nicchia imprevedibile, quella action. Forse i meriti della “saga” della macchina da combattimento nascosta nei panni del quieto padre di famiglia media americana finiscono qui. Peccato che nel sequel diretto dall’indonesiano Timo Tjahjanto gli spunti iniziali (pur non originalissimi) vengano ripetuti con stanchezza. Siamo nei paraggi di un film con Bud Spencer (quelli senza Terence Hill) con un surplus di violenza, senza l’infantilismo gioioso del primo né la furia astratta di un John Wick. Felici di rivedere Sharon Stone, cattiva sguaiata e divertita.

UNA PALLOTTOLA SPUNTATA

Sequel che somiglia anche a un remake, per un ritorno in forze del demenziale. Visto il (comprovato) successo di questa Pallottola solo tra gli spettatori maturi e anziani, potremmo già definirlo “demenziale senile”. O “demenziano”. Tale è la preoccupazione da parte di Akiva Schaffer di rispettare gli elementi linguistici e teorici della comicità dei ZAZ che sembra quasi di assistere a un saggio comico o a un critofilm sull’ipotesto. Ben venga, in ogni caso, questo ricorso a un tipo di umorismo che nessuno sviluppa più. Liam Neeson si rivela perfetto, stolido e stupido il giusto, anche se è Pamela Anderson a trasformare la mascherata in qualcosa di esilarante e talvolta dolente,

QUEL PAZZO VENERDÌ, SEMPRE PIÙ PAZZO

Che si sentisse il bisogno di questo sequel non lo potrebbe affermare nessuno al di fuori di un executive della Disney con la calcolatrice in mano. Bisogna dire, però, che Freakier Friday cade in piedi. A dispetto dell’aria caramellata di vecchio film “straight-to-Disney Channel”, infatti, il vorticoso scambio di corpi (quattro, rispetto al capostipite, dove erano solo madre e figlia a invertirsi) mette in gioco tre età. E quella che avrebbe potuto essere (ma non è) una commedia lancinante sulla biologia in una società che rende stupidamente eufemistico l’invecchiamento, fa comunque capolino qua e là. Jamie Lee Curtis continua il tratto di carriera fatto di personaggi eccessivi e chiassosi, Lindsay Lohan prosegue il suo infinito quanto claudicante come back.

UN TIPO IMPREVEDIBILE 2

Adam Sandler alterna la carriera autoriale (con i Safdie, Buambach. Zagar) e quella comica pecoreccia, in esclusiva per Netflix. Ma siamo sicuri che le due strade corrano parallele senza mai incontrarsi? Il seguito del cult (in America) Happy Gilmore offre un esempio di commedia crepuscolare, dove alla grossolanità esibita dello humour corporeo e “basso” si affianca una vena malinconica, oltre che l’ennesimo ritratto da white trash più preciso di mille film Sundance. La rabbia – compagna di tanto cinema “di” Sandler – rimane il tema, insieme al lutto. In mezzo, mille comparse illustri e una marea di relitti umani e di corpi traumatizzati, in chiave grottesca, secondo un’iconografia mostruosa e villana degna di nota.

STICK

Rimanendo nel campo del golf e degli swing potenti, vale la pena citare il dramedy di Apple TV+ (a conferma dell’allargamento di generi che ormai la piattaforma sviluppa e vanta). Si tratta di un racconto sportivo, di coaching e pareting, perfettamente cucito su Owen Wilson (che pare non invecchiare mai d’aspetto), qui ex campione di golf decaduto e allenatore di un giovanissimo ma turbolento talento. Non stupisce trovare tra i produttori e registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (Little Miss Sunshine, Fleishman a pezzi), oltre che lo specialista del comico Dennis Dugan: le strade dell’indie on the road e quelle della comedy un po’ grezza si mescolano alla perfezione. Non manca persino uno sguardo sulle molecole di una società divisa tra tradizioni conservatrici e familiste e spinta ai valori woke. Sicuramente riuscito, a patto di non chiedere a Stick altro di quel che desidera essere.

THE BEAR 4

Difficile parlare della stagione senza parlare del finale, dove una volta di più la sostenibilità e la complessità del ristorante si specchiano apertamente nella dimensione produttiva e di scrittura della (meta)serie. Detto questo, siamo già alla seconda stagione consecutiva dedicata al tema dello scacco, dell’incertezza, del trovarsi in between tra lavoro ed esistenza. La puntualità annuale di The Bear comincia a farla sembrare una sit com di lusso. Con una differenza fondamentale. Che, al contrario di tante altre, sono proprio gli episodi eterogenei e lontani dalla cucina a funzionare: sia quello dedicato a Sydney (episodio 4), sia quello dedicato alla folle famiglia Berzatto (episodio 7) colpiscono e commuovono. Gli altri molto meno. Urge una riflessione, in attesa che Ayo Edebiri prenda sulle sue spalle la cucina e lo show.

TOO MUCH

Tornano Lena Dunham e la sua altalenante carriera. Qui gioca quasi totalmente da sola e i risultati si impennano. Too Much è una comedy isterica, imprevedibile, esilarante e strampalata, dove esplode il protagonismo di Megan Stalter. Concepita in senso contrario a serie pulitine come Emily in Paris, poggia sulla premessa del lavoro oltreoceano di una lunatica americana in Inghilterra, e della sua storia d’amore buffa e tormentata con un musicista di Londra. Libera nei toni, nelle durate, nell’ironia, nella rappresentazione delle identità, la serie scardina gli stereotipi senza lezioni, concretamente (per esempio nell’attrattività sessuale di una donna dall’aspetto non normativo né armonico). La lotta corpo a corpo tra l’aspetto scewball/romantic e quello anti-convenzionale finisce a volte fuori giri, ma funziona per la sua estraneità alla serialità algoritmica.

MOBLAND

C’è l’impronta dell’inarrestabile Guy Ritchie anche su questa godibile serie gangster di Paramount+. La storia è a dir poco basica: una famiglia di feroci criminali di origine irlandese (gli Harrigan) combatte a Londra una faida senza quartiere per il controllo del potere, in una spirale di agguati e vendette che coinvolge varie generazioni. Il propellente per il godimento di MobLand è quasi esclusivamente nelle variazioni di genere, nella brutalità delle azioni, nel cast divertente e divertito (Tom Hardy giustamente immoto e imploso lascia a Pierce Brosnan ed Helen Mirren i fuochi d’artificio recitativi). Si aggiunge una versione clamorosamente patriarcale della famiglia (quasi una tragedia elisabettiana volutamente pop e kitsch), che avrebbe bisogno di uno psicanalista ma risolve le grane freudiane con le pistole.