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VITE (IN)FINITE E CORPI CHE PARLANO

VITE (IN)FINITE E CORPI CHE PARLANO

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Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

FINAL DESTINATION – BLOODLINES

La saga, ferma da anni, è notoriamente inesauribile: la Morte come nemico non scompare mai (un po’ come in Bergman e Allen, ma dentro il pop horror). Non ci si inventa nulla di nuovo, ma funziona tutto benissimo, anche grazie a una sana ironia che permette di superare il senso di déjà vu e di evitare la sensazione di un ritorno spompato. Si aggiunga uno straziante addio di Tony Todd, già visibilmente malato, e per il fan del mainstream horror (in piena crisi) l’orizzonte si rischiara. La filosofia di fondo si fa ancora più potente: visto che moriremo tutti, Final Destination altro non è che un racconto antropologico sulla nostra ansia nel posporre quel momento.

THUNDERBOLTS*

Ormai in completa confusione progettuale, il MCU chiude mestamente la sua fase 5 cercando di lanciare nuovi e vecchi personaggi in un club di “new avengers” parodistici ma gagliardi, con l’occhio rivolto esclusivamente al botteghino da tenere vivo. Pur stendendo un velo pietoso sullo humour insipido e su processi di (ri)scrittura infiniti che separano la Marvel dagli accadimenti del mondo reale, i punti a favore sono pochi – tra questi il dolente incenerimento delle vittime civili, unico aspetto iconografico in grado di uscire dalla goliardia e dare un qualche significato all’etica del superpotere. Per essere una transizione, è davvero lunga. Mai disperare: la fase 6 ci dirà se si risvegliano o stramazzano.

LOVE / SEX

Approfittiamo per chiudere la trilogia di Haugerud con gli altri due titoli non ancora recensiti. Love è una struggente disamina delle forme erotiche e discorsive dell’attrazione, le cui grammatiche vanno sempre reinventate, sullo sfondo dell’architettura parlante di Oslo. Sex sembra ricordarsi, oltre che di Rohmer, anche del sottovalutato periodo del mumblecore americano. Sempre i corpi sono al centro dei fiumi di parole che si scambiano i personaggi. Definirsi e definire senza giudicare, sembra questa la lezione etica dei tre lungometraggi, che hanno nella loro quieta naturalezza la loro forza. E in fondo, questi racconti morali aprono oasi tutt’altro che apolitiche nel contesto contemporaneo.

BIRD

Che Andrea Arnold sia un’autrice con i fiocchi non lo scopriamo oggi. Pur lontano dalle vette animaliste e post-umane di Cow (ipotesi-cinema davvero radicale), Bird insiste sull’affresco degli esseri viventi in condizioni esistenzialmente liminari. L’idea è che, man mano che gli strati sociali si avvicinano alla sopravvivenza (o al comportamento) animale, ci accorgiamo più chiaramente della nostra prossimità al regno naturale. Da una parte, quindi, precisione descrittiva delle classi subalterne, dall’altra astrazione percettiva verso un’animalità del sentire e del vedere. La scrittura, però, non è altrettanto lucida e la parte finale (simile per certi versi al fiacco The Animal Kingdom) scopre il fianco a retoriche poco coerenti col resto.

PATERNAL LEAVE

Qualcuno chiami il time out sulle ambientazioni provinciali da mare d’inverno o da periferia malinconica. Anche se, per essere un piccolo film italo-tedesco, è un colpaccio avere la star del momento (Luca Marinelli), nei panni di un padre inaffidabile, raggiunto dalla figlia adolescente abbandonata da neonata e mai di fatto conosciuta. La bravura dei due attori protagonisti nel delicato confronto sembra ribellarsi alla piattezza psicologica dei caratteri e della storia, i cui temi (la consanguineità, l’omosessualità, la paternità, lo scarto generazionale, l’immaturità) provengono da un catalogo risaputo e stereotipato. Non aiutano simboli vistosi. come gli ennesimi fenicotteri. Accontentiamoci almeno della masterclass attoriale. E però: ma che cinema è, questo? A chi appartiene e chi si incarica di rappresentare?

Alla prossima volta!