Dopo i tanti tira e molla nazionali e regionali sulle sale cinematografiche e la loro capienza, il dpcm di ottobre che ha chiuso definitivamente le sale ha stroncato ogni possibilità di festival in presenza o anche solo ibridi. I molti festival italiani di novembre (davvero tanti) traslocano tutti online, la maggior parte su MyMovies – che diventa una sorta di fornitore leader di media events legati al cinema.
Inutile ora riaffrontare la difficile questione dell’essenza del festival online, anche perché curiosamente coloro che l’hanno contestata sono stati quelli che sono riusciti a organizzarlo o prima della pandemia o nel periodo tra prima e seconda ondata. Il Trieste Science+Fiction Festival– luogo quasi mitico della fantascienza italiana, anche per il legame ancestrale con la sua precedente versione, epocale, degli anni d’oro – si svolge dunque tutto su piattaforma.
Lo dico subito, non mi è possibile per nessuno di questi festival seguire dettagliatamente tutto il programma e tutti i film. Non lo potrebbe fare nemmeno chi fa esclusivamente il critico, vista la simultaneità dei tanti appuntamenti, ma ancora meno chi ha come primo mestiere quello di accademico (natura che peraltro si intreccia e fonde alla pratica critica, nel mio caso). Tutto questo per dire che Trieste, anche solo assaggiando parte della proposta, mi dà l’impressione di un festival in grande salute, grazie alla solida direzione di Daniele Terzoli e a uno staff di collaboratori esperti, giovani e meno giovani, che sanno selezionare tante cose belle.
Quest’anno, pur cominciando con il “generaccio” caotico di Skylin3s – terzo capitolo di una saga di cui non si sente alcun bisogno – si sono presto rivelate altre storie interessanti. Per esempio si conferma la tendenza allegorizzante dell’horror contemporaneo: Relic di Natalie Erika James è un film che rappresenta la malattia dell’Alzheimer trasfigurandola come un viaggio haunting in luoghi oscuri e paurosi che diventano una minaccia anche per la famiglia (tutte donne: nonna, figlia, nipote, come a dire che l’accudimento dei malati spetta sempre alla discendenza femminile). Un Babadook della terza età, con meno originalità ma momenti molto toccanti (altri non di ottimo gusto, visto il tema, ma tant’è).
La fantascienza politica con risvolti sociali, a sua volta, sembra coprire ormai buona parte del territorio. Lapsis di Noah Hutton, pur penalizzato dal basso budget e da attori non particolarmente carismatici, e pur evidenziandosi come un episodio allungato di Black Mirror, appassiona per come costruisce un mondo parallelo in cui l’automazione della gig economy è arrivata ad estremi devastanti. Interessante e paradossale l’intreccio tra mondo completamente digitalizzato e background fisico dello stesso, con i precari del lavoro privato costretti a cablare faticosamente mezzo mondo per farlo funzionare.
Ovviamente quel che interessa del Trieste Science Plus Fiction è anche l’apertura geografica alle produzioni internazionali, anche le più inattese come il potente horror Post Mortem di Péter Bergendy, ungherese, ambientato nel 1918, legato al tema del fantasma, della fotografia e del ritratto mortuario. Anche qui le istanze metaforiche (prima guerra mondiale, Spagnola, folklore, comunità ecc) si sprecano, ma con cura formale non scontata e momenti seriamente inquietanti.
Un festival sempre appassionante, in ogni caso. Complimenti.