C’è un’anima sempre più sperimentale nel Ravenna Nightmare Film Fest, anch’esso esclusivamente in versione online per l’edizione 2020. Non più confinato al solo genere horror e dintorni, ma sempre più interessato anche agli spazi inclassificabili del cinema d’autore e delle poetiche del corpo o del surreale, il Nightmare (lo chiamiamo così per brevità) sta offrendo un programma composito e pieno di sorprese, anche nei formati brevi.
Nel Nimic di Yorgos Lanthimos, per esempio, c’è la voglia del regista greco di tornare nei territori originari, anche se la progressiva de-territorializzazione del suo cinema lo ha da tempo spostato in una zona franca internazionale (Hollywood a parte) fatta di umori sospesi tra Haneke e Saramago. Nella storia di un Matt Dillon espropriato del suo ruolo di capo famiglia da una ragazza che pretende di sostituirlo “come padre e come marito” tutti i paradossi di Lanthimos vengono fuori in poco più di dieci minuti, con risultati misteriosi ma degni di essere discussi.
Diversamente, l’esperimento di Bertrand Mandico (The Return of Tragedy) è assai più irritante, una di quelle cose accumulatorie e cinefile dove sembra quasi obbligatorio che lo spettatore si diverta e ne parli bene. Nient’affatto: il mix di cinema amatoriale, No Wave, avanguardia e horror di serie Z mi pare del tutto irrilevante, e mi stupisce l’entusiasmo di cui è circondato. Molto meglio, invece, i corti di Donato Sansone, tra clip e animazione o i lavori di Koji Yamamura, dal tratto semplice e dalla forza filosofica intrigante.
Interessante anche lo sfruttamento dello spazio festivaliero per l’approfondimento critico o le lezioni speciali, come quella di Andrea Chimento su David Lynch. Invece, spizzicando qua e là nel concorso, colpisce tra i tanti titoli (diseguali, come del resto è inevitabile che sia) Woman of the Photographs di Takeshi Kushida, dove la storia di un ritocco fotografico orrorifico e di un rapporto tra artista e modella, invece che sortire un effetto di prevedibile déjà-vu di temi e tropi, trova strade intense e tutto sommato spiazzanti. Sorprendente, perché al solo sentir parlare di riflessione sul corpo e sull’immagine c’era da tremare.
Per il resto, festival come questo da una parte confermano come l’occulto e il perturbante siano griglie attraverso le quali una grande quantità di cinematografie nazionali può affrontare, interpretare, trasfigurare un presente complesso e nodi socio-culturali al tempo stesso singolari e universali. Dall’altra rinfocolano la sensazione che là fuori, nella produzione globale sempre più frenetica di storie e di opere, ci sia sempre più bisogno dei festival come agenti curatoriali e di selezione. Che la fisionomia del Nightmare stia cambiando, insomma, è segno di intelligenza.