Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
AFTER LIFE
Non è facilissimo giudicare After Life alla fine delle tre stagioni. Ogni tanto sensazionale nell’affrontare il lutto da ogni angolazione psicologica, ogni tanto esilarante per come spazza via la retorica, ogni tanto insistente e quasi snervante nell’evocare un rapporto di coppia di perfezione stucchevole, ogni tanto girato in modo tanto sciatto da lasciare a bocca aperta, ogni tanto aperto a un’osservazione minuta di solitudini quali il cinema d’autore non riesce più a restituire, ogni tanto volgare fino al disgusto e gratuito fino alla noia. Bisogna però dire che ogni nuova ricollocazione gervaisiana nel mondo dell’audiovisivo risulta stimolate e che forse After Life – con i suoi pochi episodi e poche ore – è un esempio di come si lavora su un habitat quale Netflix attraverso il rapporto tra celebrity comica e letteratura di provincia (di una provincia tanto folk quanto universale). Scopriremo solo più avanti se questo progetto, e soprattutto questa galleria di personaggi, avranno superato la prova del tempo.
SUCCESSION
La terza stagione dell’amatissima serie americana riparte sostanzialmente dalla fine della seconda e osserva con sadismo più gaudente che mai gli spasmi della dinastia Roy e la frenetica ricombinazione delle alleanze fratricide o patricide. Gli ingredienti sono i soliti: dialoghi basati principalmente su metafore spesso deliranti; macchina a spalla che entra nella mischia ed esalta la dimensione polifonica di ambienti spesso affollati di persone che si parlano addosso; analisi del capitalismo globale attraverso gli orrori del rapporto media/finanza; psicanalisi ironica di una famiglia attraversata da complessi tragicomici. Questa terza stagione non è apparsa particolarmente “progressiva” rispetto alle prime due – la seconda difficilmente verrà eguagliata – e si limita a ripetere i suddetti elementi gestendoli in modo sempre piacevole ma anche senza particolari sorprese (e con un cliffhanger finale piuttosto prevedibile per chi ormai conosce i colpi di scena della serie). Spiccano gli episodi della festa di compleanno e quelli in Italia, concepiti non a caso in maniera evidentemente più compatta.
A CASA TUTTI BENE
E se a Muccino le serie facessero bene? Dobbiamo intenderci. Chi scrive è allergico al suo cinema, pur riconoscendogli uno statuto di autore – lo merita chiunque costruisca il suo universo riconoscibile, e Muccino lo possiede in tutto e per tutto. Ma l’idea di questa espansione del suo film più esagerato porta a un risultato di hardcore mucciniano che fa scattare l’ormai celeberrimo guilty pleasure. Con il solito ricorso massiccio al montaggio parallelo e alla ritmica esasperata, e a vicende che via via strangolano i personaggi e li intrecciano al reciproco destino, Muccino aggiunge anche un pizzico di crime e si diverte a gettare nel calderone un cast molto affiatato (forse ben consapevole di doversi lanciare apertamente nel kitsch). Barbara Petronio, brillante ed esperta scrittrice di serialità, è il collante del Muccino-Universe in questa operazione di Sky, che finisce senza finire in vista di una seconda stagione già concepita. Ovviamente ci sono incongruenze, cattivo gusto, momenti cringe, stereotipi vari (quelli femminili, poi….), ma guardandolo con un po’ di ironia e una birra in mano ci si diverte.
INCASTRATI
Peccato. Ficarra e Picone si devono essere quasi spaventati della troppa “cattiveria” del loro film migliore – L’ora legale – e hanno scelto strade più famigliari (nel senso del segmento family oltre che della loro comfort zone). Già la triste svolta per grandi e piccini di Il primo Natale aveva convinto il duo a suon di milioni di incasso. Ora ci troviamo a metà strada con una serie di pochi e brevi episodi, quasi un film allungato, dove le gag sono talmente diluite da rischiare il principio omeopatico. Nella storia dei due signor nessuno che finiscono in un meccanismo criminoso per il quale sono ovviamente inadeguati si possono intuire alcune potenzialità satiriche sulla Sicilia, sull’inestirpabilità della mafia e sugli stereotipi patriarcali, ma ogni tema è sviluppato con una tale stanchezza narrativa da fiaccare i buoni propositi. Si vede chiaramente che i due non sanno nulla di serialità, senza che l’apporto in sede di scrittura degli ormai onnipresenti Fasoli e Ravagli cambi molto la situazione. Netflix è un cestone, mi pare che – algoritmo o meno – ogni sforzo di reperire una coerenza sul prodotto italiano sia al momento vano.
NON MI LASCIARE
Discorso generale: la Rai, e Rai Uno in particolare, sta continuando a fare le scelte giuste sulle serie (o se preferite fiction, ma ormai la distinzione terminologica non ha senso, tanto più che il prodotto italiano delle piattaforme, vedi Petra, si sta “raizzando”). Se La sposa ha saputo, con qualche diabolico cinismo, declinare la starità di Serena Rossi in una storia da melodramma d’appendice con tanto di stereotipi regionali usati con sagacia, Non mi lasciare lavora invece sul volto/personaggio sempre più sofferto di Vittoria Puccini. Si tratta di un crime su temi piuttosto cupi (riecco Fasoli/Ravagli) dove convivono elementi quasi fincheriani e pacchiane soluzioni televisive da prima serata, con il plus di una Venezia sfruttata in lungo e in largo come co-protagonista: non sarà Andrea Segre o Yuri Ancarani, ma non fa male (ed è pur sempre Rai Uno).