Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
OZARK 4
Quanto è difficile chiudere una serie. Ormai c’è una letteratura in merito. E anche Ozark si è incartata all’ultimo, con due minuti conclusivi esecrabili e un’ultima stagione sotto tono – oltre che contraddittoria rispetto ai personaggi maschili. Per fortuna, però, il resto ha funzionato alla grande (pur con una prima stagione preparatoria), anche grazie ai personaggi femminili – uno più riuscito dell’altro. Alla fine, questa evidente derivazione creativa da Breaking Bad (famiglia travolta dal crimine che ne diviene parte integrante) ha trovato un suo world building tra ambientazioni e temi, con un sotto-testo di capitalismo criminale che magari non sarà nuovissimo (essendo in fondo già il tema del gangster movie anni ’30) ma è stato gestito con una certa radicalità. Inoltre non va sottovalutata la pienezza narrativa: in epoca di serie slabbrate che tirano per le lunghe, ogni episodio di Ozark era fitto di avvenimenti, svolte, densità e talvolta pure troppi colpi di scena. Scelta apprezzabile.
SERVANT 3
Dopo una seconda stagione che ha rischiato di ribattere sugli stessi temi della prima con qualche fatica nell’allargamento narrativo, la terza abbandona la sindrome di inferiorità nei confronti del capostipite – irripetibile – per lasciarsi andare in maniera più anarchica al piacere del sulfureo. L’elemento polanskiano viene messo in un frullatore, Losey fa capolino, Shyamalan ovviamente guarda dall’alto, la lotta di classe diventa pura ironia delle forme e il tema fondamentale (la famiglia e il territorio come proprietà senza vero possesso delle proprie vite) viene ribadito con grande fantasia. Alla fine la vera figura tragica è il bambino, che trascolora dall’artificiale al naturale, un “pupazzo di carne” che conta solo a seconda di chi se lo tiene, figura passiva ma reale (più o meno), impossibilitata al libero arbitrio ma centro significante di tutta la storia. Il resto è virtuosismo di scrittura e regia.
LA FANTASTICA SIGNORA MAISEL 4
Un po’ meno fantastica del solito. Qualcosa si è inceppato, o meglio si è incartato, nella splendida serie dei coniugi Palladino. A livello puramente strutturale, manca con tutta evidenza una storyline principale: forse per le precedenti esperienze degli autori, e specialmente di Amy Sherman-Palladino, questa comedy di alta qualità sta scivolando verso la sit-com dove i personaggi secondari erodono spazio ai principali e diramano linee diegetiche gestite con montaggi paralleli sempre più legnosi. Nulla di male nella sit com, ma nasconderla dentro un altro prodotto che non ne ha né i codici né le potenzialità cronometriche è un problema – e infatti molte scene prevedono (più del solito) la rappresentazione di monologhi con pubblici diversi (TV, teatro, night club) a sostituire l’effetto delle risate registrate. Succede ben poco in questi otto episodi. Detto ciò, rimane pur sempre una passerella di dialoghi frenetici, outfit clamorosi, movimenti di macchina folli, fulgore visivo. E c’è anche John Waters (giustamente).
SUMMERTIME 3
D’accordo, nessuno può spacciare questa serie per qualcosa di fondamentale. Però una piccola lancia la spezzerei. Giunta in un momento in cui molti la confrontavano erroneamente con la ben più importante Skam Italia, Summertime è una classica serie triennale Netflix “glocal”, con una valorizzazione pop del territorio locale. La Romagna sta diventando da tempo qualcosa di diverso e vendibile, anche grazie a un lavoro di cromatizzazione, globalizzazione e multiculturalismo che creatori e sceneggiatori hanno tenuto qui ben presente. L’elemento nostalgia è garantito sia dalla colonna sonora (piena di canzoni italiane del passato) sia dal recupero delle atmosfere sentimentali light alla Sapore di mare. Gli attori sono spesso incerti ma offrono una loro autenticità e la protagonista è una scoperta decisamente interessante (da vedere però se esiste in Italia un sistema plurale teen di cinema e TV che possa dare un futuro ai tanti attori emergenti che stanno emergendo). Insomma, più che il classico guilty pleasure, un normal pleasure di cui alla fine abbiamo apprezzato concept produttivo e onestà nell’offrire il disimpegno estivo come orizzonte totalizzante.
BANGLA – LA SERIE
Bella l’idea Fandango/RAI (e Raiplay) di espandere il piccolo film del 2019 in una serie più lunga, affidando il ruolo di head a Phaim Bhuiyan. Un’autorialità-mondo che guarda, pur con la prospettiva multiculturale ed “etno”, all’ironia di Zerocalcare. E la presenza di Emanuele Scaringi in co-regia (La profezia dell’armadillo) non deve essere un caso. Aggiungiamo, come modelli internazionali, altre due serie “autofiction” come Master of None di Aziz Ansari e Ramy di Ramy Youssef (quest’ultima però ben più urticante e meno vicina alle atmosfere di Bangla). Il mescolarsi di storie personali, piccole vicende da letteratura di “Torpigna” e una storyline principale con una storia d’amore un po’ inverosimile tracciano la via per un orizzonte probabilmente limitato ma da considerarsi importante per vari motivi – a cominciare dall’idea che la seconda generazione cominci a produrre narrazioni italiane.
LA MALA
Le docu-serie stanno crescendo vertiginosamente in questi anni, e l’alleanza con la podcast culture dedicata al crime appare evidente. La Mala racconta la Milano tra il 1970 e il 1984, in un momento di violenza urbana e criminale indicibile ma pre-esistente (o propedeutica) rispetto alla criminalità contemporanea – al tempo stesso infiltrata dalle mafie meridionali e dalla finanza offshore. L’approccio è potente: usando un ricco repertorio di polizi(ott)esco “nordista”, il solito (ma eccezionale) lavoro d’archivio e una narrativa centrata sui personaggi più carismatici, La Mala è una specie di The Irishman documentario (con lo stesso finale: gangster che, se non sono morti, finiscono in ospizio). Gli effetti di ridondanza e le costruzioni retoriche dei personaggi sono ormai vocabolario di genere. Molto divertente, molto appassionante, un po’ lunghetto, con il consueto dubbio di epicizzazione di gente disgustosa, di assassini di merda. Però funziona.