Cominciato il 5 giugno 2020, il Biografilm si svolge interamente online su Mymovies, gratis. Ecco la seconda puntata delle impressioni critiche su alcuni dei film (qui invece la prima puntata)
Irradiated (Irradiés) di Rithy Panh. Tre schermi, a volte allineati in simultanea, a volte separati. Tutte le atrocità del Novecento, che hanno affiancato la storia del cinema, in novanta minuti, senza sosta, senza dimenticare alcun totalitarismo, senza sollevare l’obiettivo dallo sterminio – salvo forse alla fine. Un film che dialoga con gli ultimi Godard, anche se non si può nascondere qualche dubbio sul senso dell’operazione di Panh, ai limiti del sadismo. L’orrore non è naturalmente ossessione piacevole, ma l’ipnosi è dietro l’angolo, e i corpi ammassati, torturati, senza vita e senza più forma fanno più male del discorso delle “immagini malgrado tutto”.
Barzakh di Alejandro Salgado. Il documentario contemporaneo lavora molto sui luoghi di passaggio, i confini strani e fantasmatici. Qui c’è Melilla, città autonoma spagnola in punta di Marocco, dove stazionano gli aspiranti migranti. Ciò che distingue dagli altri questo doc è che Salgado riprende tutto di notte, trasforma le rocce e le grotte sul mare in un castello gotico, e lascia le persone illuminate da fioche torce a parlare e parlarsi, in un clima estetico e psicologico a volte lacerante. Sospetti di estetismo? Forse, ma lo preferiamo a certo cinema del reale.
Love Child di Eva Mulvad. L’ultima volta dicevamo dei sotto-generi nel doc, soprattutto nell’epoca post-primavere arabe. Vicino al “filone siriano” (di grande importanza per la ridefinizione del visibile negli ultimi anni), questo probabile candidato alla vittoria finale riprende una famiglia di iraniani che fugge da una possibile esecuzione in patria. Ci sono un bambino, una mamma e un papà che però si era finto lo zio, perché non è il marito di Leila. La fuga si blocca in Turchia, e anche questa è una storia di congelamento e frustrazione. Meglio della lapidazione, certo, ma un rifugiato intanto ha perduto la patria. Bisogna accettare che i doc possano essere mélo (qui figli illegittimi, segreti enormi a fin di bene, suspense, pianti a dirotto, separazioni), purché non cinici. La regista Mulvad, testimone incessante della vita dei tre, non lo è.
Being Eriko di Jannik Splidsboel. Storia di Eriko Nakamura, ex fiore precoce del pianismo mondiale, poi artista e performer (un po’) estrema per liberarsi dalla ferocia dei concorsi e dei concerti. Una corte dei miracoli di artisti e figure sensibili accompagnano la continua ridefinizione dell’arte di Eriko. Di idee di documentario ce ne sono pochine, e purtroppo la limitatezza dei confronti dialogici tra i protagonisti si fa via via più irritante. Però non è che ne si può dire particolarmente male. Ed Eriko ha una tensione fisica e mentale che basta a sostenere parecchi muri pericolanti del film.
La pallina sulla conca di Francesca Iandiorio. Film-diploma conclusivo del CSC di Palermo. Un altro film sui problemi di corpo e di cibo (particolarmente presenti al Biografilm 2020). A differenza di altri, la Iandiorio trova un “partito preso” della messa in scena. Riprende tutto ma non se stessa. Parla di sé ma si occulta. Si rifrange nelle immagini altrui – il compagno, la madre… – e cerca di capire il proprio rapporto con l’atto del mangiare a partire dalla famiglia, dalle tradizioni, dalle relazioni (intuendo su se stessa un tema fondamentale del cibo, persino della cultura del cibo). Minimalista e metonimico, centrato, con un finale toccante.
#unfit: The Psychology of Donald J. Trump di Dan Partland. La teoria, sostenuta da un gruppo di psicologi americani, è che Trump abbia un serio disturbo narcisistico della personalità e dunque vada deposto. A partire da questo divertente spunto, si comincia a esaminare Trump da un punto di vista clinico, osservando una gran mole di interviste, tweet, momenti della carriera da imprenditore, per giungere sempre alla stessa conclusione: Trump è pazzo. Poco più di un documentario-birra da bersi dopo cena tra democratici, peccato per la seconda parte dove le analisi storiche (il confronto Trump/Mussolini) sono campate per aria e fanno sbandare questo film post-Michael Moore.
La casa dell’amore di Luca Ferri. Conclusione della trilogia dell’appartamento di Luca Ferri, per fortuna un regista che è sempre meno un segreto ben custodito del cinema sperimentale italiano. Massima ammirazione per questi due anni passati con la trans Bianca, che intrattiene clienti uno più bislacco e malinconico dell’altro. La vita di Bianca è vera, le scene con i clienti invece ricostruite con amici e attori. Avevamo apprezzato Dulcinea e adorato Pierino (forse il doc più tradizionale? Ma mica tanto). Qui si fa più fatica, a dire la verità, specialmente per le liturgie teatrali e vagamente sadiane degli incontri finzionali. Lodevole invece lo sguardo su Bianca: una affettuosa distanza, al tempo stesso impudica e legittima, seria, che accalora il tutto.