Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
IL SEME DEL FICO SACRO

Non mentiamo: la paura di trovarsi di fronte a un tipico film-ricatto (opera mediocre ma realizzata da un autore coraggioso perseguitato dal regime e dunque impossibile da criticare) c’era. E la sensazione di schematismo emerge qua e là fino a metà racconto, poi nell’ultima ora Rasoulof scatena un cinema di rara e immaginifica potenza, spazzando via ogni dubbio. Pescando sia dal cinema della paranoia americana degli anni ’70 (sembra quasi di vedere Pakula o il Coppola di La conversazione) sia dal cinema politico di Güney o Panahi, l’autore iraniano inventa una prigione di famiglia patriarcale e un labirinto a cielo aperto che lasciano di stucco. Senza dimenticare che è anche un grande meta-film su quali scelte di set si possono fare quando si gira clandestinamente.
DICIANNOVE

Sorprendente ed elettrico esordio di Giovanni Tortorici, da cui attendersi parecchio in futuro. Storia imprevedibile di un giovane “alieno al suo tempo”, irritato dall’intera eredità del Novecento e in cerca di solidi approdi morali nell’italianistica storica. Le parole e ciò che designano, oscillando tra il Trecento e la trap, sono la materia con la quale l’autore ritrae un ragazzo fragilissimo e arrogante, aperto alla vita ma chiuso alle relazioni codificate. Parente un po’ morboso del coetaneo di Troppo azzurro, Leonardo conquista per autenticità e isteria, una specie di hikikomori siciliano in trasferta a Siena. La somiglianza dell’attore con Lou Castel è un indizio, lo scarso amore del personaggio per Pasolini una falsa pista che dice il contrario. Il coming of age è scomposto (durava tre ore e 40, Tortorici lo ha tagliato a 1 ora e 45 facendo esplodere rigeneranti ellissi e squilibri divertenti) ma lucidissimo.
FOLLEMENTE

Da una parte bisogna ammirarlo, Paolo Genovese. Da una parte non ha paura di copiare di sana pianta (da Inside Out), confermando l’insopprimibile natura bis e artigianale del nostro cinema, dall’altra riesce nuovamente a creare un prototipo di successo esportabile e vendibile come format. Tolti i panni degli analisti industriali, però, le belle notizie finiscono qui. La coppia uomo/donna obbedisce a stereotipi conservatori e ovvietà da Maria De Filippi, i meccanismi maschilisti e i bias non si contano (è sempre la donna in fondo ad adattarsi: all’uomo più vecchio, al calcio su DAZN, all’eiaculazione precoce, alla sua figlia capricciosa) mentre i personaggi mentali rappresentano un immaginario medievale – oltre che, per i maschietti, simile a una RSA. Un film brutalmente binario, per un’Italia sentimentale che osserva sé stessa avulsa dalla società e immutabile (confrontare Follemente con la coppia di Dieci capodanni per misurare il disagio).
A REAL PAIN

Gli americani in Europa devono misurare sé stessi a lo stato della nazione, come chiarito da Eastwood nel suo rosselliniano Ore 15:17. I due cugini ebrei statunitensi, uno più incasinato dell’altro, alle prese con la memoria della Shoah durante un viaggio in Polonia, fanno i conti con esistenze qualsiasi e con una Storia più grande di loro. Peccato che la Storia, oggi, non significhi nulla: i simboli sono svuotati, se non divorati dalle trasformazioni urbane. Restano gesti rituali, ma a volte nemmeno appoggiare un sasso davanti a una porta in uno squallido cortile viene tollerato. Con una scrittura di straordinaria sottigliezza analitica, Eisenberg offre un ritratto pessimista delle funzioni simboliche della memoria e della curabilità del dolore (quello vero, appunto).
HERETIC

Due modi di guardare a Heretic. 1. Valutazione industriale: ottima. Si tratta di un horror psicologico sagacemente a basso costo, che valorizza un solo set, un ottimo attore in contro-ruolo e la fotografia eccezionale del maestro Chung Chung-hoon. 2. Valutazione interpretativa: di che diavolo parla il film? Sembra una resa dei conti tra svalvolati religiosi (le due predicatrici dei Mormoni e lo psicopatico eretico che vuole essere Dio) con un finale ambiguissimo che offre un assist alla destra cristiana. Visto con gli umori di questi giorni, invece, potremmo leggerlo come un racconto su che cosa succede quando vivi di ideologie irrazionali e poi, ops, ti trovi alla mercé di un vero dominatore pazzo (nell’allegoria, le ragazze sarebbero l’Occidente e Hugh Grant sarebbe Trump).
L’ANGELO AZZURRO

Quando escono i classici restaurati, il rischio è sempre di rivederli, impacchettare le valigie e lasciare il cinema dicendo “vabbé, salutiamo tutti e d’ora in poi guardiamo solo questi”. Poi si razionalizza e si torna all’oggi. Però il capolavoro di Von Sternberg rimane clamoroso. Capace di farsi esempio universale di storia di autodistruzione, L’angelo azzurro rivisto adesso enfatizza la sua natura sospesa tra post-espressionismo, sperimentazione sul suono in epoca di superamento del muto, premonizione di una catastrofe sociale e storica in arrivo. Per non parlare di un lato Freaks (inteso come Browning, ovviamente) che lo sospinge nell’area del weird cult quando meno te lo aspetti. In una parola: irriducibile.