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IMPRONTE E VESTIGIA DI RACCONTI SERIALI

IMPRONTE E VESTIGIA DI RACCONTI SERIALI

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Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE LAST OF US 2

Con quale set critico dobbiamo guardare alla seconda stagione del prodotto di punta HBO? L’ossessione per l’adattamento fedele di certi passaggi del videogame sembra diventato un ostacolo più che una qualità, per una probabile incomprensione del campo d’azione potenziale tra un videogame che si nutre dell’immaginario zombi pre-esistente e una serie condannata ad essere “la miglior versione narrativa di un videogame di sempre” (siamo sicuri?). Inoltre, la scarsità delle varianti (i post-umani e le loro evoluzioni biologiche; l’erranza nell’America distrutta; la balcanizzazione delle tribù dei sopravvissuti) non pone scampo al senso di déjà vu generale, soprattutto nei confronti di The Walking Dead. Un finale di raro masochismo, poi, conferma che da questa serie c’è ormai poco da aspettarsi in futuro (indipendentemente dai suoi alti valori produttivi).

THE STUDIO

Blanda satira della Hollywood contemporanea, interessante per vari motivi. Il primo è che una serie da piattaforma (Apple) celebra sia pure sarcasticamente la grandiosità del cinema e mette al centro personaggi che parlano solo di grande schermo. Il secondo è che tra un blockbuster e Boris i problemi sembrano gli stessi. Il terzo è che anche lo stile è “cinematico” (piani-sequenza, grana da pellicola, location originali, cura maniacale in controtendenza rispetto alle altre comedy da mezzora). Tante contraddizioni curiose, insomma, e alcuni momenti esilaranti, principalmente grazie alla testa di Seth Rogen e alla presenza strepitosa di Bryan Cranston.

DYING FOR SEX

Interessante ribaltamento di eros e thanatos. Normalmente si parte dal primo per scoprire poi che il secondo è in agguato (da Freud a Hitchcock le cose stanno così, forse Cronenberg ha rovesciato il tavolo tra i primi). Qui, in una dramedy da bundle Disney+, si parte da thanatos (una diagnosi tumorale che non lascia scampo) e si costeggia la sessualità, in una ricerca del piacere troppe volte perduto, da assaporare proprio mentre il corpo svanisce. Certo non manca il coraggio a Dying for Sex, e alla protagonista Michelle Williams. Nuocciono solo alcuni vezzi da prestige TV, alcuni siparietti visionari inguardabili, e una generale corsa al weird che a volte pare dimostrativa. Ma è un esperimento riuscito, in linea con tempi in cui dobbiamo re-imparare a gestire l’idea della morte e della finitezza.

BLACK MIRROR 7

Nulla che cambi la percezione delle ultime stagioni. Black Mirror rimane preziosa perché è l’unica fantascienza non apocalittica, non millenarista, non distopica, capace di ragionare sulle trasformazioni della società in un futuro non troppo distante. Tenendo al centro elementi tecno-scientifici, ne proietta le ombre sulla nostra esistenza pesantemente mediatizzata. Al solito, ci sono episodi più riusciti di altri (il primo, il secondo e soprattutto il quinto, Eulogy) e coma sempre i finali rappresentano il più grosso problema di Charlie Brooker in sede di scrittura. Tuttavia, non avendo un Twilight Zone dei nostri tempi, accontentiamoci di ciò che gli si avvicina maggiormente.

DAREDEVIL – RINASCITA

Dopo il tentativo non disprezzabile dell’era Marvel/Netflix, Disney+ recupera l’eroe più amato di allora e gli dà un futuro, incastonandolo nella mestissima fase 5 appena conclusa. In quest’epoca di strani ibridi streaming con stile da TV generalista, Daredevil non sfigura, anche se sacrifica molto dei due nemici (Murdock e Fisk) per buona parte della stagione. Non ci fosse stato l’eccellente The Penguin (universo DC) forse avremmo apprezzato di più le riflessioni su vigilantismo, città-stato, democrazie in pericolo, leader para-trumpiani, di questa specie di Gotham marvellizzata. Probabilmente Dario Scardapane ha lavorato più sulla scrittura industriale che sulla singolarità del personaggio.

1923

Si conclude in due stagioni il prequel di Yellowstone, con alcune indicazioni narrative importanti per la connessione inter-generazionale dei personaggi. Meno perfetta e struggente di 1883, 1923 ha dalla sua un chiarissimo progetto narrativo: il feuilleton d’avventure a puntate. Chi si lamenta degli eccessi di trama o della sovrabbondanza d’azione, si ascolti il dialogo in cui si cita Edgar Rice Burroughs: più chiaro di così. L’ibridazione tra western e avventura esotica, tra cinema di genere e serial muto alla The Perils of Pauline si esprime a livello elementare, epidermico, con passione pari solo alla voglia di esplorare la fondazione americana da parte di Taylor Sheridan. Le cui serie, a quanto pare, rimangono indigeste al critico medio democratico liberal. Eppure non dovrebbero, perché è l’unica alternativa non trumpiana che racconta l’America profonda di ieri e di oggi, e che cosa vuole dire MAGA per tanti cittadini statunitensi (fuor di propaganda).