Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
THE HOLDOVERS
Autore sensibile, ma quasi condannato a una empatia controllata che non si trasforma mai né in mélo esplicito né in drama dal consapevole gusto hollywoodiano, Payne porta avanti una filmografia tanto coerente quanto poco incisiva. Lontani i tempi urticanti di Election, la scuola ridiventa sfondo per un racconto che gioca di sponda tra umanesimo salingeriano e cinema anni Settanta, evocato però superficialmente, forse soffrendo di un complesso di inferiorità verso Paul Thomas Anderson (che sembra uno spettro che si aggira minaccioso per il film, capace di costringere Payne alla timidezza). Ovviamente, nessuno nega si tratti di un lavoro di qualità, dalla direzione degli attori alle finezze narrative e psicologiche, ma il rischio di smussare gli angoli a forza di tenerezza è quello di disperdere un talento su cui si avevano ben altre aspettative.
YANNICK
Ormai bisogna prenderlo sul serio, Quentin Dupieux. Autore totale e ambizioso (anche se l’apparenza è opposta: un regista sornione, parodistico, che sovverte i canoni della seriosità francese), questa volta racconta – con mirabile unità di tempo, luogo e azione – una ribellione spettatoriale che diventa ambigua riscrittura umoristica della solitudine. Ma mentre altri si sarebbero accontentati di un gioco pirandelliano, magari anche gustosissimo, Dupieux riesce a spiazzare le attese, seminare domande più che risposte, farci dubitare del sistema estetico in cui viviamo, e sfiorare anche il tema del populismo – senza ditino alzato. Appena sotto Mandibules e Incoryable mais vrai, ma sempre ad alta quota.
I SOLITI IDIOTI 3
A proposito di toni finto-demenziali, certo Biggio e Mandelli non sono Dupieux ma giocano su un campo non troppo dissimile. Unici comici in Italia oggi che flirtano con il pecoreccio e l’escrementizio (il paragone più utile è Sacha Baron Cohen), costruiscono – se si sta al gioco – un film a tratti esilarante, dove il nichilismo corrisponde a una precisa visione (apocalittica) del presente. Il turpiloquio diventa pura surrealtà, e le gag – pur spesso riciclate dai personaggi ben noti (tornati per rilanciare il duo) – funzionano spesso. C’è poi la sequenza al museo che vale il biglietto, per come satireggia il sistema sempre più autoreferenziale dell’arte (super)contemporanea.
FARGO 5
Dagli idioti agli stupidi (buoni e cattivi) che popolano come sempre la serie di Noah Hawley. Lo showrunner, consapevole di aver smarginato in territori troppo sbadati nella quarta stagione, torna sontuosamente con un racconto denso e fantasioso. Al centro, l’americanologia aggiornata al trumpismo, dove vengono messi a confronto un populismo buono, un militarismo biblico e un’imprenditoria cinica – che però sa riconoscere ciò che è importante salvaguardare quando tutto va a rotoli. Come al solito, la filmografia coeniana è saccheggiata in orizzontale, e le due protagoniste (con menzione d’onore per Juno Temple) meritano il piedistallo.
MONARCH
Sinceramente ben pochi avrebbero scommesso un soldo bucato su una serie spin off del già non irresistibile (eufemismo) MonsterVerse di Warner/Legendary. Certo non è un capolavoro, ma bisogna ammettere che questa serie a zonzo tra gli anni ’50 (con aggiornamento realistico della FS d’epoca) e presente alternativo funziona meglio del previsto. Il budget non può essere gigantesco, quindi i mostri si vedono pochino, ma basta Kurt Russell – con figlio clone come coprotagonista – a fare simpatia, tra ricordi carpenteriani e un’attitudine da B-movie più sincera di quella dei lungometraggi collegati.
SKAM 6
L’interesse verso Skam sta vertiginosamente scendendo, lo si capisce a livello empirico (e i dati confermano). Peccato perché il disimpegno dei giovani spettatori sembra dovuto alla mal sopportazione verso un difficile transito verso nuovi volti, nuove storie, nuove atmosfere (lontane dagli esordi). Ma, anche se è possibile che la serie di Bessegato stia diventando un plaesure consapevole per spettatori anagraficamente maturi, bisogna concedere l’onore delle armi. Non tutto funziona, e la casistica dei disordini patologici adolescenziali rischia di limitare la freschezza degli argomenti. Detto questo, si continua a restare a livelli che gran parte dei teen drama nazionali si sogna, specie per direzione degli attori e credibilità dell’universo messo in scena.