La città magica di William A. Wellman (1947) è un ottimo esempio di cinema americano che indaga sulla società ideale e sulle utopie civili. Rivedendo il film, vengono alla mente le opere di Frank Capra, che infatti avrebbe in un primo tempo dovuto dirigere la pellicola. La sceneggiatura, a sua volta, è stata scritta da Robert Riskin, abituale collaboratore di Capra. In effetti, molti dei temi cari al cineasta italo-americano compaiono puntualmente: l’ideale roosveltiano di una cittadinanza capace di cooperare per il bene comune, il pericolo di una eccessiva esposizione al mercato e ai mass media, la tentazione dell’avidità individuale, la ricerca della felicità singolare temperata dalle altrui esigenze.
Più che la città magica, quella raccontata dal film è la città perfetta. Il giornalista interpretato da James Stweart crede di aver trovato il centro cittadino più adatto a rappresentare l’intera comunità degli Stati Uniti. L’idea – statistica – è che sondando gli umori dei cittadini, si riesca a ottenere l’orientamento dell’intera nazione su materie tra di loro disparate: la politica, il gusto comune, la sensibilità sociale, insomma l’intera pubblica opinione. Come sappiamo bene, però, test, sondaggi ed exit poll vengono troppo spesso smentiti dalla realtà. Così accade anche questa volta, e i risultati delle ricerche sono troppo bizzarri per essere presi sul serio. Parafrasando il principio di Heisenberg: analizzando un processo troppo da vicino, l’osservatore finisce col modificarlo. Anche i pareri dei cittadini impazziscono, poiché essi si trovano impreparati a tutta l’attenzione che i media riservano loro, e mutano il proprio modo di sentire e vedere il mondo a seconda di chi li intervista.
La città magica dovrebbe essere proiettato nei corsi di laurea in Storia per comprendere come una certa America, democratica e ottimista, rappresentava se stessa all’altezza del 1947. La seconda guerra mondale è appena finita, e la società statunitense, grazie alla vittoria nel conflitto bellico, sembra godere di un periodo di serenità e coesione sociale. Tuttavia, qualcosa scricchiola: l’egoismo capitalista e le scalate finanziarie possono travolgere il tessuto faticosamente costruito da Roosevelt dopo la crisi economica del 1929. Ecco che film come Città magica cercano di interpretare nuovamente lo spirito che portò l’America fuori dalla crisi negli anni Trenta. E’ un grido nostalgico, quello che cerca di avvertire dei pericoli dell’eccessiva ricchezza e dei falsi doni dell’euforia generalizzata.
Il film si compone di tre movimenti. Il primo è quello dell’arrivo nella città perfetta. Essa si trova sul territorio statunitense ma è come se fosse sospesa in una sorta di surrealtà. Noi vediamo tutto con gli occhi del protagonista, accecato dal proprio preconcetto. Egli saluta ogni abitante che incontra per strada, ricevendo sguardi perplessi. Gli unici che sembrano davvero prestargli attenzione sono i ragazzi della scuola comunale, che gli chiedono consigli sul gioco della pallacanestro. La spontaneità degli abitanti convince il nostro giornalista di trovarsi nella città giusta, se non fosse per gli screzi con la giornalista del luogo, una penna acuminata che sembra aver compreso le sue intenzioni (ma l’amore è naturalmente proto a sbocciare). La seconda parte del film rappresenta invece il crollo dell’utopia. I mass media, una volta scoperta la città ideale, la sconvolgono, e la mandano in rovina, dopo averla abbandonata perché inaffidabile. E così comincia il terzo e ultimo capitolo del film, quello in cui – non sveleremo come – la città tenta di risollevare le proprie sorti, e i due innamorati di ritrovare pace e serenità.
A parte questo inquadramento ideologico, che trova certamente nel cinema di Frank Capra il suo modello principale, va detto che i meriti del film vanno anche oltre. Non c’è dubbio che il tono da commedia umanista provenga dalla lunga tradizione hollywoodiana nella cura del personaggio e del dialogo. Il protagonista è solo uno dei tanti “every day men” (uomini di tutti i giorni) che James Stewart ha saputo interpretare. Basti ricordare proprio la lunga militanza nel cinema di Frank Capra (L’eterna illusione, 1938, Mr. Smith va a Washington, 1939, La vita è meravigliosa, 1946), le collaborazioni con Ernst Lubitsch (Scrivimi fermo posta, 1940), per non parlare poi dei ruoli con Hitchcock, che secondo alcuni critici ne hanno trasformato la carriera portandolo su lidi meno ottimistici e sicuri (Nodo alla gola, 1948; La finestra sul cortile, 1954; L’uomo che sapeva troppo, 1956; La donna che visse due volte, 1958, forse il ruolo più oscuro e tragico di tutta la carriera). Dinoccolato, magro e legnoso, Stewart ha sempre evidenziato una sorta di “inadeguatezza” al mondo, di impossibilità ad essere completamente normale.
Egli è al tempo stesso il perfetto americano e il cittadino metropolitano lunare e toccato (vena folleggiante sviluppata soprattutto da Harvey, 1950). Per i motivi esposti, non ci poteva essere interprete migliore di Stewart per un film come Città magica. L’attore dà al suo giornalista senza scrupoli un’umanità impareggiabile, quella che permette all’uomo di sentirsi a casa anche senza volerlo, di trovare nella cittadina che lui stesso ha scovato il calore e la grazia della migliore provincia statunitense. Egli imparerà che quella città è “magica” perché è “everytown”, è cioè ogni cittadina d’America, con i suoi difetti e le sue bizzarrie, ma tuttavia sana e positiva come la nazione che la contiene. E’ il tipo di ottimismo e di sprone che Stewart ha saputo impersonare meglio di chiunque altro.
Il tono del film è comunque lieve. La galleria dei caratteri merita una menzione, poiché ogni personaggio rappresenta davvero un pezzo della comunità, a cominciare dai ragazzini, impegnati nel comprendere il basket e la vita, e a un certo punto persino indispensabili per la salvezza della città. Il merito di questa sensibilità narrativa è da attribuire, oltre che alla bravura del già citato soggettista, a William Wellman, cineasta oggi meno celebrato di altri, ma certamente non secondo ai nomi più noti.
Il piacere nel rivedere oggi film come La città magica sta proprio nella limpidezza del racconto e nella esemplarità della composizione. Si tratta del miglior cinema classico hollywoodiano, quello che – a fronte di una semplicità che sarebbe errato scambiare per ingenua – insegna a riflettere sulla società e sulle scelte umane.