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Tag: Andrea Segre

GIRO DI CINEMA TRA TERRA E CIELO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

ANORA

Destrutturazione molecolare dei tre atti della commedia americana, il nuovo racconto americanologico di Sean Baker sceglie una traiettoria spiazzante e amorfa. La giuria di Cannes 2024, facendosi dire “non sarà troppo una Palma per questa commediola?” ha dato lezione di cinefilia, scoprendo la dimensione elitaria del gusto festivaliero. In verità si tratta – come ha detto Ilaria Feole e confermato da Baker – di Le notti di Cabiria meets John Hughes. E già questo basta, Ma in più abbiamo un’analisi di un sogno migratorio americano totalmente rovesciato, un’analisi dei rapporti di classe attraverso l’uso del corpo, e una disamina filosofica della distruzione della realtà illusoria (mai visto un personaggio ricondotto alla sua mediocrità quanto il protagonista). Sorprendente.

FLOW

FLOW - Un mondo da salvare 02 - Teodora Film

Che stagione per l’animazione (di tutti i tipo, si pensi solo a Invelle e Il robot selvaggio)! Il film di Gints Zilbalodis, senza dialoghi e senza esseri umani, può essere considerato un tempestivo racconto di abissalità naturale in epoca di panico climatico. E se il gattino protagonista riesce ad essere straordinariamente credibile nelle sue movenze, è invece in un’astrazione anti-mimetica che si nasconde il valore del film, a-temporale (quando è ambientato?) e universalistico (la solidarietà tra specie giunge attraverso una negoziazione tutt’altro che lineare con gli istinti). Eccezionali anche i piani-sequenza, per quanto animati, e la rappresentazione dell’acqua, che funziona sia come specchio sia come microcosmo di vita e di morte.

BERLINGUER

C’è chi ha citato il Rossellini didattico, per il nuovo lavoro di Segre. Non sapremmo se essere d’accordo (e magari con qualche dubbio storico su quel Rossellini), certo è che Berlinguer si gioca su una lotta sottilissima tra cinema e baratro del docu-drama televisivo stile RAI. Autore e sceneggiatore sono troppo intelligenti per cadere nel burrone, ma la dimensione pedagogica è talvolta così sottolineata da rischiare l’irritazione. L’altra battaglia – su come si lavora, oggi, con i materiali d’archivio nell’epoca in cui tutti lo fanno – è anch’essa al limite. Di fondo, un film sulla perdita: della sinistra, certo, ma anche di un intero sistema sociale, quasi da far sospettare che si rimpianga la separazione netta tra le classi e tra gli elettorati piuttosto che cantare la nostalgia dell’azione politica.

IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA

Per fortuna che dietro la macchina da presa c’è una regista cinefila. Altrimenti questo sarebbe stata la solita lezione morale tratta dalla cronaca, con il ditino alzato e l’inutilità assoluta del parlare ai già convinti. Avendo invece trasformato la storia del protagonista in un coming-of-age adolescenziale tenero e stratificato (con suggestioni pop tra Harry Potter e il cinema alla Stand By Me), l’autrice ha buon gioco nel moltiplicare la virulenza del comportamento bullistico e l’insopportabilità della perdita. La cosa migliore, in fondo, non è tanto la denuncia della violenza quanto lo spreco irreparabile del potenziale umano e del futuro adulto, in particolare la fine del rapporto con l’amica del cuore, vero carburante emotivo del racconto.

QUI NON È HOLLYWOOD

Dopo tante polemiche inutili e infantili, il lavoro di Mezzapesa si rivela uno dei migliori true crime di questi anni. Non solo viene superato d’un balzo il malefico sensazionalismo delle docu-serie (come quella irricevibile su Yara), ma viene costruito anche una narrazione a mosaico abbastanza inedita – pochi hanno notato che i punti di vista diversi si passano il testimone mentre il racconto avanza cronologicamente (non è Rashomon, insomma). A parte i virtuosismi sceneggiatoriali, Qui non è Hollywood funziona – a dispetto del titolo – proprio perché è un po’ americano: quanti avrebbero lodato la disamina della provincia statunitense se al posto di Avetrana ci fosse stato un paesino della Louisiana o del Texas? Ecco, la stessa cosa – sul puritanesimo, la pochezza umana, il ruolo tossico della famiglia tradizionale, la perdita di punti di riferimento sociali – viene svolta qui.

PARIS, TEXAS

Wim Wenders è tornato. Gli ultimi tempi già segnati dal commovente Perfect Days e dal ritorno in sala di Il cielo sopra Berlino si arricchiscono del restauro (magnifico, e ve lo dice chi non è grande appassionato di colori in 4K) di Paris, Texas. Quel che allora era parso un racconto potente segnato da qualche dispersione, e da alcuni auto-compiacimenti in salsa shepardiana, mostra 40 anni dopo una limpidezza straordinaria, una trasparenza classica che lo sospinge verso la New Hollywood molto più che verso il cinema d’autore internazionale di oggi. E anche le rappresentazioni iper-realistiche del paesaggio USA, per quanto iconograficamente note, restano spettacolari e toccanti, quanto lo è Nastassja Kinski, di rara vulnerabilità.

AUTORI TRA STRADE, LINEE E CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

L’INNOCENTE

Il miglior film di Louis Garrel da regista non somiglia in nulla (giustamente) a quelli del papà. Il modello è il cinema borghese romantico, ironico e con venature di poliziesco di una certa tendenza francese anni ’70 (un mix consapevole di Sautet, Zidi, Lautner e altri). Se lui è simpatico ma gli romperesti il muso, trionfano piuttosto Anouk Grinberg e Noémie Berlant, esilaranti e passionali. Una prova di maturità in leggerezza, segno di intelligenza.

AUDITION

Rivedere Audition oggi non toglie “peso” all’esperienza, anzi. Cresce la politicità del racconto di Takashi Miike, mentre la violenza occupa un gradino meno essenziale rispetto al discorso che era necessario fare negli anni Novanta (ah, quanto ci mancano, cinematograficamente parlando). Più in generale, pur non essendo il titolo più importante di una filmografia caotica e dalle gerarchie imprendibili, c’è un motivo se dopo un quarto di secolo ci si dà la pena di ridistribuirlo.

STRADE PERDUTE

Si temeva che sul grande schermo il restauro 4K potesse smarrire la densità dei neri, ma per fortuna – visto che Lynch ha supervisionato il lavoro – continua ad essere il buio più materico e bello mai visto nel cinema contemporaneo. Oggi, in epoca bacchettona, arriva alle viscere soprattutto come opera sensuale, con Patricia Arquette vero perturbante erotico irriducibile, vero fantasma del desiderio nella totentanz freudiana che maestro David apparecchia per noi.

COPENHAGEN COWBOY

A Lynch deve molto anche Nicolas Winding Refn (anzi, NWR) con la sua sinuosissima serie Nerflix girata in Danimarca. Non estrema, osata e delirante come Too Old to Die Young, che era una specie di Scorpio Rising di ore e ore, Copenhagen Cowboy ne mantiene comunque l’idea di base: la serialità streaming può anche essere arte contemporanea in vitro, video-installazione in coma narrativo, tra Bruce Lee e la Marvel, tra Damien Hirst e il fashion film, tra le carezze techno di Cliff Martinez e il grugnito horror dei maiali affamati di carne umana. Fuck yeah.

KIMI

A pagamento su piattaforma arriva la penultima fatica di Soderbergh, nuova variazione claustrofobica sul rapporto tra uomo, capitale, architettura sociale e dispositivi di controllo. Leggermente meno ispirato del solito (a cominciare dal tema virale non sfruttato alle consuete altezze), rimane in ogni caso un sontuoso esempio di cinema da camera, di pressione psicologico-stilistica in spazi ristretti, un meta-film su Soderbergh autore solitario, al limite, confinato.

TRIESTE É BELLA DI NOTTE

Conquistato sul campo, il rispetto di cui gode Andrea Segre con i suoi documentari viene confermato da questa indagine sull’immigrazione della rotta balcanica. Utile, perché l’opinione pubblica si concentra sul Mediterraneo, e qui emergono storie atroci e ingiustizie ulceranti. Interessante la questione dei regolamenti, affrontata con precisione: i migranti accusati di illegalità sono respinti il più delle volte infrangendo la legge da parte dello Stato italiano.

LA LIGNE

Ossessionata dai segni sociali, dai confini e dai perimetri, Ursula Meier mette in scena una livida e sarcastica storia di tensione madre/figlia. Comincia con una magistrale scena di lite domestica, prosegue come ritratto di una giovane donna dal cazzotto facile e dal carattere spinoso, evolve come un mélo surreale, finisce ottenendo lacrime musicali. Vista la materia, avremmo sognato un minor auto-controllo registico su tutta la materia isterica, ma avercene di autrici così lucide.

IL CINEMA DELLE COMUNITÀ IN CRISI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

LAMB

Full trailer per Lamb: nell'Islanda rurale Noomi Rapace cresce un bebè  ibrido umano-pecora - Il Cineocchio

Piccolo horror islandese con Noomi Rapace (di cui bisognerebbe cominciare a tratteggiare la figura di attrice quasi-di-genere), che si occupa di ibrido uomo/animale. Come lo svedese Border del 2018, anche Lamb lavora su elementi ancestrali, dimensioni famigliari e sessuali, elementi primari che sconvolgono gli orizzonti di conoscenza senza per questo sfociare nei codici più riconoscibili dell’occulto. Anzi, in questa storia di un figlio con testa di agnello che porta a intensificazione difficili rapporti parentali, quel che piace è la “piena luce” in cui si svolgono gli avvenimenti, con l’unico strumento del fuori campo per lavorare sul mistero e sull’occultamento. Certo il folk horror sta diventando un sotto-genere abbastanza riconoscibile, talvolta facile nelle sue articolazioni. Così come bisogna onestamente sottolineare l’inconsistenza narrativa che talvolta si nasconde negli stilemi della rarefazione. Ma il tassello di horror autoriale europeo si aggiunge al resto con merito.

LUNANA

Lunana, il film del Buthan che merita l'Oscar 2022 ha un tocco gentile e  aggraziato. Il trailer in anteprima - Il Fatto Quotidiano

Sinceramente, quando ho letto del primo film bhutanese candidato all’Oscar per il Miglior Film Straniero, e per di più con una storia che sembrava molto simile a Non uno di meno di Zhang Yimou, la parte più cinica di me ha pensato al consueto prodotto didascalico esotico che piace molto al pubblico pomeridiano delle sale d’essai. Visto il film, pur non rimangiandomi completamente lo scetticismo iniziale, devo ammettere che Lunana ha numerose frecce al suo arco. Lo stile è nitido più che risaputo, la trasparenza del protagonista più autentica che costruita retoricamente, la pudicizia della non-storia d’amore quasi fordiana in certi momenti di wilderness, la tensione tra aspirazione sociale giovanile e tradizione di villaggio non così scontata come sembra. Probabilmente in mani più autoriali sarebbe diventato cinema contemplativo d’autore, ma l’aver scelto una chiave più ingenua ed empatica non è certo una colpa, anzi.

IL MUTO DI GALLURA

Il muto di Gallura” al Torino Film Festival - La Nuova Sardegna

Tanti indizi cominciano a fare una prova. La storia folk italiana sta diventando un elemento di elaborazione narrativa interessante per il piccolo cinema indipendente italiano: Piccolo corpo, Re Granchio, solo per citarne due recenti, ci parlano come Il muto di Gallura di territori, credenze, legami di sangue, rituali e comunità, ognuno poi lavorando su fronti non autoctoni: il film di viaggio, il western, persino l’horror. Nel film di Matteo Fresi lo scenario è quello di una faida ottocentesca sarda, un Hatfield & McCoy all’italiana, dove fucili, cavalli, cinturoni e buone mire furono decisive per proseguire un conflitto pluriennale e sanguinosissimo. Il progetto è molto forte, pensato nel modo giusto. I problemi vengono con i materiali concreti, a cominciare da attori molto diseguali, cali di potenza registica improvvisi, enfasi che non sempre riesce a essere riassorbita nel nerbo del racconto. Inoltre il western è un modello fin troppo evidente, con scolastici brani musicali simil-morriconiani che rischiano di indebolire l’idea.

PO

Po, Andrea Segre e Gian Antonio Stella ricordano l'esondazione del 1951 |  CameraLook

L’attività di Andrea Segre è incessante, alternando documentari e cinema di finzione. Ormai il mondo veneto per Segre è luogo di mitografia, ricostruzione storica e dedizione narrativa. Questa volta si racconta una tragedia dimenticata: il 14 novembre 1951, l’argine sinistro del Po si spacca. La marea invade in pochi minuti le terre del Polesine, una delle regioni all’epoca più povere di tutta Italia. Vengono invase non solo le campagne, ma uno a uno tutti i paesi, fino alle città di Rovigo, Adria, Cavarzer: tantissime vittime e tantissimi sfollati. Non c’era la televisione, ma l’Istituto Luce, i cui archivi vengono ampiamente saccheggiati da Segre (con Rizzo, co-autore). E i bambini di allora, oggi vecchi che parlano quasi solo in dialetto, raccontano i loro ricordi, dominati dalla miseria prima ancora che dalla tragedia. Forse meno avventuroso e inventivo di altri doc di Segre (ma chiarezza e solidità non vanno affatto considerate concessioni), Po ha il dono di essere limpido e sentito.

MASTER – LA SPECIALISTA

Di cosa parla il film Master

Black Lives Matter Horror prosegue. Questa volta la storia riguarda la promozione a dirigente accademica di una professoressa nera, la prima del Campus, e i guai che affronta una studentessa che alloggia in una stanza maledetta (non si contano le sovrapposizioni col recente Seance). Al posto dei colpi di scena a buon mercato, la regista Marianna Diallo preferisce una tensione carica di malinconia e la consueta vena didascalica (per questa declinazione di genere, escluso il più imprevedibile Jordan Peele): è un tratto tipico della narrazione audiovisiva afroamericana, non trattandosi di retorica pedagogica bensì della necessità di exempla potenti su cui forgiare il discorso sull’identità. Il tema in questo caso è la sostanziale persistenza di razzismo e paternalismo nei confronti dei colleghi neri da parte della comunità degli accademici bianchi anche quando si credono progressisti. Peccato per un terzo atto scialbo e tirato via. Master sembra una versione dark della serie Netflix La ditettrice, ma qui siamo su Prime Video, a riprova di quanto i prodotti di “genere/politica” siano frequenti sulle piattaforme.

OCCHI SFOCATI e luoghi (in)ospitali

Si apre oggi la prima puntata della nuova sezione “In poche righe”, dedicata a brevissime riflessioni su film e serie in uscita.

WELCOME VENICE

Il miglior film di Andrea Segre libera il suo cinema spesso in bilico (talvolta perfetto, talvolta zoppo) tra sguardo e racconto. La Giudecca e i granchi costituiscono una solida iconografia, tra verismo e iper-realismo, che contiene in modo commovente lo scontro fratricida tra tradizioni e new economy (che altrimenti sarebbe stato rischiosamente legnoso). L’accento veneto diventa quasi un folk rap e gli attori sono in stato di grazia (speriamo che ai David se ne ricordino).

MALIGNANT

Il ritorno di James Wan all’horror dal sapore “indie” ha già diviso i critici: crudo e rozzo b-movie eccitante, sanguinoso, zampillante; o prodotto di scarto, diretto male e recitato da cani? La lettura cinefila attira verso il primo parere, ma durante la visione si sbatte il muso più volte contro il muro di realtà della seconda evidenza . Se lo avesse diretto Darren Lynn Bousman non mi sarei stupito. E non è un complimento.

IL CIECO CHE NON VOLEVA VEDERE TITANIC

Situazione ribaltata. Successone di pubblico e critica mainstream e accuse di immoralità dello sguardo da parte della cinefilia radicale. Come mostrare la soggettività di un tetraplegico cieco interpretato da un attore in quelle stesse condizioni? Bastano le sfocature e l’uso intenso del fuori campo verbale? Certo, il film “carino” è dietro l’angolo, ma concederei un po’ di generosità a questo mélo intinto di culto per i film, oltre che al suo protagonista di lepida ironia finlandese.

LA DIRETTRICE

Ormai le serie TV sono macchine di scrittura e macchine di rielaborazione frenetica della realtà sociale. In questo godibile caso, i temi del maschilismo e gerontocrazia delle università americane sono confrontati agli ingenui estremismi degli studenti. Curioso lo sguardo neutro ma non neutrale delle autrici. Non si sa bene per chi tifare in quel Dipartimento tra docenti e allievi, e alla fine si ha la sensazione che noi spettatori siamo reagenti: a seconda delle nostre empatie capiremo i nostri limiti.