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Tag: Dag Johan Haugerud

VITE (IN)FINITE E CORPI CHE PARLANO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

FINAL DESTINATION – BLOODLINES

La saga, ferma da anni, è notoriamente inesauribile: la Morte come nemico non scompare mai (un po’ come in Bergman e Allen, ma dentro il pop horror). Non ci si inventa nulla di nuovo, ma funziona tutto benissimo, anche grazie a una sana ironia che permette di superare il senso di déjà vu e di evitare la sensazione di un ritorno spompato. Si aggiunga uno straziante addio di Tony Todd, già visibilmente malato, e per il fan del mainstream horror (in piena crisi) l’orizzonte si rischiara. La filosofia di fondo si fa ancora più potente: visto che moriremo tutti, Final Destination altro non è che un racconto antropologico sulla nostra ansia nel posporre quel momento.

THUNDERBOLTS*

Ormai in completa confusione progettuale, il MCU chiude mestamente la sua fase 5 cercando di lanciare nuovi e vecchi personaggi in un club di “new avengers” parodistici ma gagliardi, con l’occhio rivolto esclusivamente al botteghino da tenere vivo. Pur stendendo un velo pietoso sullo humour insipido e su processi di (ri)scrittura infiniti che separano la Marvel dagli accadimenti del mondo reale, i punti a favore sono pochi – tra questi il dolente incenerimento delle vittime civili, unico aspetto iconografico in grado di uscire dalla goliardia e dare un qualche significato all’etica del superpotere. Per essere una transizione, è davvero lunga. Mai disperare: la fase 6 ci dirà se si risvegliano o stramazzano.

LOVE / SEX

Approfittiamo per chiudere la trilogia di Haugerud con gli altri due titoli non ancora recensiti. Love è una struggente disamina delle forme erotiche e discorsive dell’attrazione, le cui grammatiche vanno sempre reinventate, sullo sfondo dell’architettura parlante di Oslo. Sex sembra ricordarsi, oltre che di Rohmer, anche del sottovalutato periodo del mumblecore americano. Sempre i corpi sono al centro dei fiumi di parole che si scambiano i personaggi. Definirsi e definire senza giudicare, sembra questa la lezione etica dei tre lungometraggi, che hanno nella loro quieta naturalezza la loro forza. E in fondo, questi racconti morali aprono oasi tutt’altro che apolitiche nel contesto contemporaneo.

BIRD

Che Andrea Arnold sia un’autrice con i fiocchi non lo scopriamo oggi. Pur lontano dalle vette animaliste e post-umane di Cow (ipotesi-cinema davvero radicale), Bird insiste sull’affresco degli esseri viventi in condizioni esistenzialmente liminari. L’idea è che, man mano che gli strati sociali si avvicinano alla sopravvivenza (o al comportamento) animale, ci accorgiamo più chiaramente della nostra prossimità al regno naturale. Da una parte, quindi, precisione descrittiva delle classi subalterne, dall’altra astrazione percettiva verso un’animalità del sentire e del vedere. La scrittura, però, non è altrettanto lucida e la parte finale (simile per certi versi al fiacco The Animal Kingdom) scopre il fianco a retoriche poco coerenti col resto.

PATERNAL LEAVE

Qualcuno chiami il time out sulle ambientazioni provinciali da mare d’inverno o da periferia malinconica. Anche se, per essere un piccolo film italo-tedesco, è un colpaccio avere la star del momento (Luca Marinelli), nei panni di un padre inaffidabile, raggiunto dalla figlia adolescente abbandonata da neonata e mai di fatto conosciuta. La bravura dei due attori protagonisti nel delicato confronto sembra ribellarsi alla piattezza psicologica dei caratteri e della storia, i cui temi (la consanguineità, l’omosessualità, la paternità, lo scarto generazionale, l’immaturità) provengono da un catalogo risaputo e stereotipato. Non aiutano simboli vistosi. come gli ennesimi fenicotteri. Accontentiamoci almeno della masterclass attoriale. E però: ma che cinema è, questo? A chi appartiene e chi si incarica di rappresentare?

Alla prossima volta!

MASCHERE, CLONI, FANTASIE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

MICKEY 17

Aleggiava un’aria di flop intorno al nuovo Bong post-Parasite e, dopo molti rimandi, così è stato, anche se non catastrofico. Bisogna resistere alle opposte tentazioni di farne un gioiello sovversivo per motivi di politique des auteurs o al contrario di lapidarlo con una sassaiola di risatine. Il talento del coreano è tale che ci sono più idee iconografiche e narrative qui che in tutta la filmografia di Walter Salles, tuttavia non si può negare che il progetto cinematografico sia a dir poco appannato, la satira snervante, i temi del doppio, del capitalismo e del futuro “marxiano” ampiamente e meglio esplorati da Scott, Sonnenfeld, Verhoeven, per tacer di Kubrick. Peccato anche per gli attori fuori controllo, in primis Ruffalo con accenti vagamente (e inopinatamente) trumpiani. Lo rivaluteremo? Chissà.

LA CITTÀ PROIBITA

Con un budget sontuoso e un progetto nitido, Mainetti si conferma cineasta con i controfiocchi. Provate a mettere in mano il kung fu a qualche altro collega italiano pulp (non facciamo nomi) e avrete una pecionata da pacche sulle spalle per il divertimento de noantri. Mainetti fa il contrario del solito: parte da un contesto teverino e coatto e dimostra che può diventare epico. Fa con i generi non autoctoni ciò che Sollima fa con il polar. I grossi problemi di scrittura (la benzina nella motivazione dei personaggi è svelata solo alla fine, depotenziando il lato revenge; la mamma interpretata da Ferilli si perde per un terzo di film; le sotto-trame annacquano tutto) sono un fardello mica da poco per poter applaudire in piedi. Applaudiamo seduti, specialmente i combattimenti (e la protagonista Yaxi Liu).

DREAMS

Terzo atto di una trilogia (di cui vedremo nei prossimi mesi anche gli altri capitoli), nonché Orso d’Oro a Berlino 2025, il film del norvegese Dag Johan Haugerud ha nella sottigliezza e nell’impianto narrativo le sue qualità migliori. Come se Rohmer si fosse risvegliato in nord Europa e avesse cercato di osservarne i mutati costumi sociali e sessuali, Haugerud attribuisce la voce narrante a una teen ager profonda ma inaffidabile (in quanto innamorata: nessun innamorato riesce ad essere lucido). Intorno ci sono tre donne: la mamma malinconica, la nonna dal passato libertario, l’insegnante idealizzata. Si misura tutto sul corpo e la sua aisthesis ma ne vediamo solo delle parti, mai intime, coperte da abiti che riparano dal freddo intenso. Si parla incessantemente. E uno psicanalista alla fine dice: non è successo nulla di originale, è solo amore. Un grande racconto su quel quasi niente che ci cambia le vite da giovani.

A DIFFERENT MAN

A Different Man, la recensione: un'indagine profonda sulla natura umana -  Thinkmovies

Mentre si farnetica sul “marchio A24” perché va di moda tirare contro i presunti fighetti, noi qui a bottega continuiamo a guardare i film e gli autori. E Aaron Schimberg, al netto di qualche arroganza, si conferma dopo Chained for Life del 2019 come un regista dalle idee chiare. Spiccano le sinuose influenze (Lynch, of course, ma anche Polanski), le assonanze (con certe isterie di Beau ha paura) ma quel che conta è il tono sospeso tra commedia, b-movie sci fi e apologo sulla diversità. Quando, nella seconda parte, le maschere si invertono e il film commenta se stesso e la nostra misurazione del deforme, si dicono cose molto più serie di quanto sembra. Colonna sonora ritagliata e coltissima dell’italiano Umberto Smerilli.

L’ORTO AMERICANO

Al 55esimo film, Pupi Avati incontra il bianco e nero. E lo usa per una storia tra oscurità provinciale e orrore nebbioso, ambientata nel dopoguerra tra America ed Emilia. Per chi ama l’Avati “gotico contadino” qui ci sono ulteriori evoluzioni. Tra gli echi di Tourneur, i raccapricci anatomici, i riferimenti a Wiene, e le finestre che non ridono più (ma fanno lo stesso paura), il racconto diventa via via sempre più cupo e rapinoso. Certo, tutto passa attraverso un fulmine d’amore, e anche questo conta, nell’universo degli affetti avatiani. Alla fine, grazie alla riuscita ritrattistica antropologica del Po e alle ombre che sussurrano nel paranormale, il vero modello si staglia ben preciso: Edgar Allan Poe.

IL CASO BELLE STEINER

Tratto da un Simenon già portato sullo schermo in passato grazie a Molinaro, un giallo dei non detti su cui gravano storie extra-set che è difficile scacciare dalla mente durante la visione (Jacquot e le accuse di stupro da parte di più attrici, in un #metoo francese che mette i brividi per le violenze scoperchiate). Proprio per questo, il protagonista reticente, irritante e apparentemente mite appare insopportabilmente colpevole, anche se il film si guarda bene dall’offrire sponde facili e gioca (un po’ manipolatorio) sull’ambiguità di fondo. Un cinema del trapassato remoto, che ha l’aria di maneggiare questioni terribili per le quali si scopre inadeguato.

THE BREAKING ICE

Dal Certain Regard di Cannes, il nuovo lavoro di Anthony Chen ruota intorno a un ménage a trois abbastanza tradizionale, arricchito da un contesto paesaggistico anomalo, neve e ghiacci sul confine tra Cina e Corea del Nord. Chen è il tipo di regista che tende a sottolineare il più possibile proprio mentre dà l’impressione di fare il contrario, ovvero sfiorare sentimenti delicati e impalpabili. Una volta fatti i conti con questa apparente contraddizione, il piacere della visione si intensifica e la pur ovvia oscillazione tra i palpiti bollenti dei cuori e lo scenario raffreddato seduce e qua e là commuove.