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Tag: Dan Trachtenberg

PADRI, MITI, RICORDI

DRACULA

Prendere troppo sul serio Luc Besson è esercizio piuttosto sterile. Rimane uno dei cineasti europei di genere di maggior talento, ma non si offre a raffinate letture metaforiche. Ecco perché il suo Dracula è puro piacere testuale a patto di non andare in cerca del mélo coppoliano o di chissà quali allegorie sulla morte del Continente. Anzi, la spavalderia gigiona con cui rimescola il mito, con tanto di “ghoulies” in Transilvania, cannoneggiamenti del vampiro, battaglie ejzensteiniane, erotismi soft da serie B sono altrettante stellette cinefile. E c’è un bel viaggio nel fantastico europeo, con un occhio a Jean Rollin e uno a Riccardo Freda.

PREDATOR: BADLANDS

Comprendiamo benissimo chi si ribella al ridimensionamento buonista del predatore e alla “disneyzzazione” della violenza, con tanto di esserino occhiuto come mascotte. Ma la verità è che questa riconfigurazione di narrativa industriale (la negoziazione tra la Fox e le esigenze della Casa Madre) seduce l’analista, più che deluderlo. Inoltre l’integrazione con l’universo di Alien (la serie, in questo caso) è più convincente di prima. E così, il prosieguo della revisione ideata da Dan Trachtenberg con Prey funziona, con questo fantasy tra creature aliene e esseri sintetici (non c’è un umano nemmeno a cercarlo col cannocchiale) che rovescia la Pandora di Cameron in un pianeta eguale e contrario fatto di una Natura assassina e armata.

INCEPTION

Torna in sala dopo 15 anni il cubo di Rubik ideato da Christopher Nolan per trasformare l’inconscio in un videogame a più livelli. Queste re-release di opere recenti servono anche a misurare la loro temperatura rispetto alla storia del cinema contemporaneo. Fu vera gloria? Probabilmente sì, anzi Inception sembra invecchiare meglio del previsto, anche perché nel frattempo non si sono trovati né cineasti altrettanto ambiziosi (dentro ai blockbuster, almeno), né un cinema altrettanto palingenetico, in grado di riflettere sulle proprie potenzialità fantastiche. E chi se ne importa degli arzigogoli in sceneggiatura o dei presunti “buchi” logici. Interessa di più il gesto: tra Escher e 007, Freud e Philip K. Dick, il congegno nolaniano vale una revisione su grande schermo.

VIALE DEL TRAMONTO

Dopo 75 anni (tre quarti di secolo), il capolavoro di Billy Wilder resta intatto, incontaminato, puro come un diamante. Anche se puro non è, anzi è uno dei più grandi film sull’impurità: quella del rapporto tra uno sceneggiatore e una diva segnata dalla morte (della carriera e non solo), quella del circo di anime perdute di Hollywood intorno a Norma Desmond, quella di un cinema che ha perduto l’innocenza già a fine anni Quaranta, quella di un’immagine dei media di massa che ha soppiantato quella del “mito muto”. Sembrava impossibile persino da immaginare l’idea stessa di un noir sarcastico. O di un melodramma senza lacrime. O di un horror senza soprannaturale. Ma Wilder c’è riuscito. E infatti siamo ancora qui a parlarne, approfittando di questo restauro 4K.

TONI, MIO PADRE

Ogni documentario che rifiuta il pilota automatico del prodottino standard (immagini d’archivio + interviste con teste parlanti) è un buon documentario. Lo è sicuramente quello di Anna Negri, dolorosissimo autoritratto con padre dove la regista misura la sua esistenza (artistica e non solo) a partire dalla biografia del genitore. Le riprese dei dialoghi tra i due, spesso drammatici, e l’utilizzo di home movies e immagini di cronaca, restituiscono tutti i sacrifici – giustificabili o meno, tocca allo spettatore deciderlo – di una vita da rivoluzionario. Restare in bilico tra osservazione di un eroe sconfitto, vicino alla morte, e riflessione famigliare era un bel rischio, tutto sommato superato in nome di un “Toni’s movie” vulnerabile quanto sincero.

ANEMONE

Daniel Day-Lewis apparecchia l’esordio al lungometraggio del figlio Ronan (interpreta, scrive e produce), con più di un sospetto di nepotismo. Il grande ritorno davanti alla macchina da presa, infatti, si infrange su una scrittura enfatica e indulgente e su una regia acerba, che scambia virtuosismi scolastici per visionarietà. Certo, Day-Lewis e Sean Bean in un dramma da camera sono due assicurazioni sulla vita per salvare il salvabile ma ci sono squilibri psicologici stupefacenti (gli abusi denunciati a inizio racconto scompaiono in nome di un altro trauma) e simbolismi irricevibili (i sogni mistici e la grandine purificatrice). Infine, non aiuta la nostra simpatia il fatto che si parli di un controrivoluzionario dei colonialisti britannici in Irlanda.

RITORNI DI IMMAGINE E IMMAGINI CHE TORNANO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

BALLERINA

Il mezzo flop di Ballerina coinvolge box office e valore del film, a dimostrazione che (al contrario di quel che si crede) l’azione – come la gag comica – è un campo difficile e teorico. L’universo John Wick ha portato il dinamismo violento a limiti parossistici, in una strana zona astratta dove il linguaggio videoludico coabita con Buster Keaton (anche qui debitamente citato). Con Len Wiseman, regista da sempre blando e privo di furia visiva, l’impressione è di un downgrade cinetico, che coinvolge tanto le coreografie quanto i corpi. E la mitologia narrativa non ha il respiro per colmare le lacune nella filosofia del movimento. Purtroppo anche Ana de Armas non trova la cifra giusta, impacciata a più livelli (era materia per Charlize Theron, probabilmente, ma intuiamo i problemi anagrafici e di statuto della star). Anche se c’è un cliffhanger, sarà difficile assistere a un sequel di questo spin off.

KARATE KID: LEGENDS

Strapazzato dalla critica, il riallineamento industriale del Karateverse ha forse come colpa principale quella di volare basso. L’estetica è di un Peter Parker in minore, del resto citato nei dialoghi, mentre la New York di quartiere oscilla tra graffitismo teen e scenario da dance squad. Alla fine, però, questo feel good movie da prima media non sembra di per sé sbagliato. I buoni e i cattivi sono sempre gli stessi di sequel in sequel, le facce nostalgiche non mancano, e il Jackie Chan incanutito muove a simpatia. La materia narrativa è pure troppa (pensiamo alla storia parallela del pizzaiolo boxeur allenato dal piccolo kung fu master), ma viene svolta in 90 minuti spicci, senza menare il can per l’aia. Un cinema estraneo a tutto tranne che a sé stesso.

L’AMORE CHE NON MUORE

Classica buccia di banana per la cinefilia: premiare la generosità, ma fino a che punto? Certo, è verissimo che Lellouche sembra possedere un grande cuore: mostra di aver divorato tonnellate di cinema francese (e non solo); di perseguire scientemente una storia di passioni, viscere, violenza ed erotismo; di guardare tanto allo stile di Beineix quanto al polar. Ma tutto sa di giustapposizione, di qualcosa cui paradossalmente mancano proprio lo sguardo e la competenza cinefila per pompare propano dentro un marchingegno confusionario. E alla fine persino Adèle Exarchopoulos non riesce a fare quello che ha fatto in Generazione Low Cost, Mandibules, Bac NORD, Passages, ovvero trasferire di film in film un’alterità assoluta e una inappartenenza dolorosa al mondo. Lellouche si fa trovare troppo “dentro” al giocattolo e alle silhouette.

VOLVERÉIS

Rovescio della medaglia del film di Lellouche. Qui la cinefilia diventa teoria del cinema, nessuna concessione allo sperdimento nel visionario, bensì una costruzione narrativa che reca con sé la bibliografia (si citano Stanley Cavell e la sua filosofia della commedia del rimatrimonio, il regista – Trueba figlio – fa interpretare il padre al vero Trueba padre, i personaggi vanno sul set di Dieci capodanni di Sorogoyen, i protagonisti fanno film e parlano di film, e così via, in pieno meta-cinema). Irritante? Non si può negare del tutto. Però qui sì che c’è competenza della grammatica affettiva, comprensione dei meccanismi narrativi, umanesimo diffuso, un “partito preso” di messinscena, seppur apparentemente dimesso. Perché alla fine, quel che conta è se la commedia sentimentale funziona e se ha una filosofia di vita. Due sì.

BALENTES

Sta circolando in tour, essendo impensabile una tenitura fissa nei cinema, il nuovo lavoro di Giovanni Columbu, come al solito a vari anni di distanza dal precedente (Surbiles, 2017). Primo film di animazione della sua filmografia – rarefatta, spartana, sospesa tra documentario etnografico e finzione -, Balentes racconta un’impresa di epica anti-fascista sarda, mescolata con la fiaba da caminetto. Grazie a un semplice rotoscopio, Columbu anima un universo orale che necessita di pochi tratti – anche se i disegni sono tantissimi, bellissimi, ed è evidente quanto tempo gli sia stato necessario per mettere insieme quest’ora e dieci di narrazione animata. L’arcaico, il religioso, il mitico e il moderno storico interagiscono: la scelta della distanza di scala rispetto alle figure che vediamo permette di osservare meglio il piano e lo spazio e di porre l’occhio come a un kinetoscopio. Coraggioso.

PREDATOR: KILLER DEI KILLER

La linea tracciata da Dan Trachtenberg (qui coadiuvato da Joshua Wessung), ovvero quella di portare il Predator in giro per la Storia, funziona per la seconda volta dopo Prey. Primo episodio animato della saga, non ha forse nel disegno (sia pure riuscito) il punto di forza, bensì in una struttura episodica che si salda nel finale e permette di spaziare fra vari generi, tra cui epico, avventuroso, esotico, storico. Tutto si gioca sul contrasto tra sproporzione delle forze in campo e capacità di colmarle grazie al coraggio e all’antichità delle grandi arti guerriere. Il target è poco più che adolescenziale; il cupo, adulto, esaltante fanta-horror alla McTiernan è ormai lontanissimo, di sequel in sequel; ma se non si vive di nostalgie, bisogna ammettere che il tassello minore del puzzle predatorio s’incastra con tutti i bordi giusti.

THE FOUR SEASONS

La comedy sembra stare meglio di altri generi, in questa fase di caotica transizione della serialità. Ispirato a un bel film di Alan Alda (che fa una comparsata mostrandosi anziano, fragile e tenero), The Four Seasons magari non riesce del tutto a trasportare nel nostro secolo gli umori sessuali e irriverenti della Hollywood fine ’70/inizio ’80 ma può contare su sguardi molto lucidi – a cominciare da quello di Tina Fey, che idea, scrive, dirige, interpreta. Non è un “one woman show” perché si gioca tutto sul collettivo, nel quale spiccano Colman Domingo e Kerri Kenney-Silver, altra comedian di razza. Funziona la malinconia di fondo, con il disinnamoramento, la mortalità e i dilemmi della mezza età al centro del discorso. Interessante anche il ribaltamento di sguardo sul cinquantenne vanesio (Steve Carell) in cerca di giovinezza: alla fine forse aveva ragione lui.

GOOD AMERICAN FAMILY

Chi pensa che ormai la categoria di guilty pleasure sia squalificata e indeterminata si deve ricredere. Good American Family ha tutte le caratteristiche del prodotto seriale con difetti spaventosi e momenti kitsch che non si riesce ad abbandonare. Qui, però, c’è qualcosa di più: un enorme caos ideologico. Concepito come un crime drama legato alla tragica storia di una bambina adottata e creduta adulta truffatrice (come nel film Orphan, peraltro citato esplicitamente), la serie – in cui hanno messo le mani anche personalità interessanti come Liz Garbus – si intorcina in modo sempre più delirante: manipola lo spettatore con una specie di Rashomon incoerente; rischia di sfruttare ignobilmente il corpo di Imogen Faith Reid (affetta da sindrome di Russell-Silver); ogni volta che ha l’occasione di volare più alto, si auto-confina in un’estetica da serie generalista inemendabile; gli attori vagano spaesati (Ellen Pompeo pronta per un Razzie), ecc. Eppure tutto questa confusione mentale e creativa non impedisce di scavare nelle contraddizioni sociali, legali e di fatto culturali americane – anzi la serie stessa e la sua scrittura diventano parte del problema. Molto affascinante.

PREDE, SOPRAVISSUTI E IMMAGINI DEL DISASTRO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

13 VITE

Tredici Vite Recensione: Ron Howard ci fa credere nuovamente nell'umanità -  Kaleidoverse

Miglior film in circolazione al momento su piattaforma, la storia re-enacted del vero recupero dei ragazzini thailandesi nella grotta è pane per i denti di Ron Howard. Un autore che si conferma umile e straordinario per come si nasconde dentro al progetto, per come coltiva il suo tema dell’umanesimo senza mai fare nemmeno ciao ciao con la manina, e per come innalza il livello stilistico dello streaming cinema. Il meglio viene dalla costruzione delle scene subacquee, con un livello di claustrofobia e pressione tale da soffocare lo spettatore. La dimensione hawksiana dei due protagonisti – Viggo Mortensen, secco e laconico, e Colin Farrell, esperto ma sensibile – funziona per tutto il film, anche se in odor di superiorità professionale occidentale nei confronti dei pur volenterosi indigeni. Ma quel che veramente conta è il lavoro tecnico sulla cava, interamente ricostruita in Australia. Una specie di set fisico e mentale, suggestivo meta-set alla Cameron. Infine, occhio al montaggio narrativo: 13 vite è anche un manuale di ellissi.

MINIONS 2

Annecy 2022: Minions 2: Come Gru diventa cattivissimo aprirà il Festival -  ScreenWEEK.it Blog

Poteva anche intitolarsi Cattivissimo 4 – Il prequel visto che la firma degli esserini gialli sembra essere attribuita più che altro per equilibri interni alla saga. Dopo i Sixties del primo episodio, ecco i Seventies del secondo, riletti attraverso un ampio spettro citazionista, da Spielberg a Tarantino, con una infallibile colonna sonora per gli accompagnatori adulti. Il film in sé strappa la sufficienza con qualche sorriso e alcune idee frammentarie, ma al solito fallisce (paradossalmente, visto il franchise) con i cattivi, che sono poco carismatici e decisamente anodini. Ma il vero dibattito è sui Minions: supini esecutori di un’obbedienza canina (quindi inno alla subalternità) o anarchici portatori di caos in un mondo senza fantasia? La terza: sono cittadini un po’ infantili che però mostrano curiosità, coraggio e apertura di mondo, portati all’esperienza, al cambiamento e al rischio. L’impasto linguistico, qui esasperato, è a sua volta metafora del prodotto globale ed esportabile.

PREY

Prey (2022 movie): the theme song and the soundtrack - Auralcrave

Quando Disney incontra Predator il risultato è questo. Aprite Disney+ e soffermatevi sulla locandina del film presente nell’interfaccia. Il modello è evidente: siamo tra Pocahontas e le principesse, mescolate a un survival. Ovviamente non si arriva al punto da farne un film per famiglie, ma il racconto di formazione della protagonista indigena sfiora la parabola disneyana più e più volte, compresa la grana fotografica, cromatica, e i personaggi secondari (il fratello e la mamma). Detto questo, Dan Trachtenberg fa il suo lavoro, la storia è ben congegnata (a cominciare dall’idea stessa del prequel), e anzi Prey dal punto di vista narrativo e tecnico è più compatto e riuscito di quanto si potesse prevedere. Dobbiamo solo chiederci se la deriva streaming dei franchise Fox (viste anche le prime, preoccupanti immagini di Avatar 2) in direzione casa di Topolino “azzurrognola” non sia un problema incipiente.

MEMORIA

Memoria: Cinema as Meditation | FilmInk

Distribuito da MUBI dopo una breve comparsa in sala, Memoria di Apichatpong Weerasethakul è finalmente disponibile per chi vuole vederlo. Esperienza ovviamente ostica, per chi conosce il cineasta, che stavolta – almeno nella prima parte – sembra seguire le regole del cinema arty internazionale, e in particolare l’ultimo Tsai Ming-liang. La trasferta colombiana non muta di troppo lo scenario forestale e piovoso della Thailandia, ma il racconto character-driven della protagonista (Tilda Swinton, che ha il suo peso come protagonista, portandosi dietro la sua carriera) è decisamente più canonico del solito. Nella seconda parte, però, si sviluppa la vera lezione filosofica del cineasta, con la lenta riappropriazione dei sensi e l’insegnamento (anche spettatoriale) alla conoscenza del mondo nella sua totalità. Il fantastico e la fantascienza ci mettono lo zampino, dando senso al viaggio erratico della prima ora. Non il suo capolavoro, ma un film luminoso e importante.

THE GRAY MAN

The Gray Man, Netflix review - the Russo brothers explore big-bang theory

Vari indizi fanno una prova. E trovo più plausibile che Netflix faccia appositamente film di questo tipo piuttosto che li sbagli tutti per caso: ovviamente per “sbaglio” parlo di fallimento estetico decretato dalla critica, mentre il pubblico sembra apprezzare. Ed è qui che casca l’asino. Il mandato di Neflix sui film ad alto budget è ormai evidente: congegni narrativamente elementari, con la presenza di una star cinematografica, ambientati (e girati) in diversi Paesi del mondo, pieni di sequenze funamboliche e distruttive, con ampio utilizzo di droni e movimenti di macchina acrobatici, aperti a sequel. The Gray Man con Ryan Gosling somiglia a Tyler Rake con Christ Hermsworth che somiglia a 6 Underground con Ryan Reynolds e così via. E non importa se ci sono i Fratelli Russo o Michael Bay in regia, perché la riconoscibilità del blockbuster globalizzato è evidente e spersonalizza le forme di regia e messinscena. Il livellamento e la semplificazione appaiono dunque come una scelta prioritaria per favorire il consumo di ogni tipo di spettatore di bocca buona esistente nel mondo degli abbonati, dall’Italia allo Yemen, dalla Polonia a Singapore. Sia detto senza razzismo ma con sincerità.