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Tag: David Leitch

REGNI, STATI (DI CRISI) E SOPRAVVIVENZE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.  

I DANNATI

E se Roberto Minervini si trovasse in una situazione di impasse creativo? E con lui il cinema del reale? Con il rarefarsi delle sue regie (l’ultima, già involuta, era del 2018: Che fare quando il mondo è in fiamme?), Minervini sembra da una parte mettersi in discussione attraverso un film di finzione e dall’altra costruire un progetto molto più interessante da spiegare che da vedere. Nell’esplorazione nordista dell’Ovest, i soldati (dannati) mandati nel vuoto e nel pericolo rappresentano un western documentale, materiale, scarnificato, gravido di storia americana e di ragionamenti sulla guerra (purtroppo appesantiti da dialoghi sentenziosi, poco “minerviniani”). Tutto è ammirevole, ma tutto si riduce a un orizzonte letterario e simbolico troppo noto e su cui c’è ben poco da aggiungere – e via via ce ne si rende conto, al netto di una bellissima sequenza di agguato (sogniamo a questo punto un Minervini più sfrontatamente malickiano ed epico).

IL REGNO DEL PIANETA DELLE SCIMMIE

No, non esiste alcuna timeline razionale o anche solo funzionale per l’intera saga dagli anni Settanta a oggi. E del resto, già questo quarto capitolo della nuova serie (ri)cominciata nel 2011 serve ad azzerare o quasi il tutto, e a proiettare nuove vicende su uno scenario più semplificato: pianeta dominato da scimmie buone e cattive, con umani buoni e cattivi a resistere. Il resto sono combinazioni. Concettoso e rilassato, il riavvio di Wes Ball non ha molto da offrire in termini simbolici o spettacolari (non produce un “pensiero su Hollywood” come talvolta fanno i media franchise), ma si difende grazie a una solidità di messa in scena quasi analogica – pur con ricorso massiccio al digitale. Interessante il personaggio di Mae (che echeggia quello di Linda Harrison e il suo mutismo nei primi due capitoli d’antan) con i suoi dubbi da guerrigliera.

IL GUSTO DELLE COSE

Dominati come siamo dalla dittatura del cibo e dalla celebrità degli chef, ecco un film che spariglia totalmente le abitudini rappresentative. La storia di Bouffant e dell’amatissima sous-chef di fine ‘800 seduce non tanto per l’acquolina in bocca quanto per la dimensione filosoficamente epicurea dell’approccio e la sfrontata celebrazione della borghesia come luogo di invenzione estetica. Tran Anh Hung si conferma cineasta sontuoso, in particolare nei primi 45 minuti (la prima giornata di cucina) fatti di un erotismo palese (la mdp osserva in movimento le tante preparazioni girando per la cucina come se inseguisse gli atti sessuali di un’orgia) e considerando i sensi dello spettatore una specie di enorme zona erogena cinefila. Il resto è una storia struggente, certo, ma mai commovente come il corpo dei lucci e la cottura delle quaglie.

THE FALL GUY

Per mezzora è: una curiosa commedia del ri-matrimonio action, un originale modo di giocare con il divismo di Ryan Gosling mettendolo di nuovo in ruolo subalterno con una donna che fa più carriera di lui, un divertente meta-film che omaggia l’epoca del cinema di Burt Reynolds e l’epica dello stuntman. Finale (della mezzora) bellissimo, con la riconciliazione sul set. Poi però c’è da riempire un’altra ora e tre quarti dove non succede nulla di rilevante, con una sotto-trama gialla imbarazzante. Possibile spendere tanto e non dare un’occhiata alla sceneggiatura? Produttori crudeli, dove siete finiti?

TROPPO AZZURRO

Barbagallo è l’anti-Castellitto. Figli d’arte romani entrambi, sembrano anime opposte. Se Castellitto immagina per sé stesso un mondo cinico, pop, tarantiniano, dove il cafonal incontra il cinema d’autore più postmoderno, Barbagallo recupera (chapeau) l’immaginario narrativo ed estetico del cinema minimalista italiano morettiano anni ’80, con precisione chirurgica. Uno grida e ride, l’altro sussurra e sorride. Uno muove la mdp come un vortice e usa il montaggio come unghie sulla lavagna, l’altro punta alla trasparenza, al dialogo, al bozzetto, mette la sordina a tutto, e fa dell’irresolutezza del protagonista la sezione aurea del film. E funziona.

RIPLEY

Battuta tra esperti: “è così curata che sembra una serie di 10 anni fa”. Tornando seri: Ripley rappresenta un UFO nella serialità frammentata di oggi oltre che un’idea di racconto estraneo alle pur caotiche linee dello streaming contemporaneo. Zaillian, autore totale, identifica nel personaggio di Highsmith (un personaggio anempatico e amorale che portò il soggetto apatico novecentesco nel giallo americano) una chiave per l’anomia del presente. Più Zaillian schiaccia la storia nel formidabile bianco e nero di Elswit e nell’Italia splendente d’epoca, più dice qualcosa del nostro illeggibile presente falso-vero. Ma anche fosse solamente uno studio compositivo su come possono stare nella stessa frase Netflix e ricerca visuale, ci basterebbe.

BABY REINDEER

Curioso caso di serie che impatta tutti i temi immaginabili dell’arena quotidiana (stalking, body shaming, vittimizzazione secondaria, fluidità sessuale, cultura dello stupro, ecc.), quasi fosse un catalogo da convegno, e di serie che li mette simultaneamente in discussione. La coda (penosa) del dopo-serie, con macchine del fango e dibattiti infiniti sulla “vera vittima”, ribadiscono da una parte che il mondo è irredimibile e dall’altra che Netflix riesce spesso a diventare centro di irradiazione dei discorsi sociali e culturali del momento. In tutto questo, è difficile credere che il creatore e attore Richard Gadd non immaginasse il putiferio che sarebbe nato da una serie auto-biografica con storie così forti e accuse così nette. Non si sa se ammirarne la spericolatezza o preoccuparsi del cinismo. Difficile offrire un giudizio critico puramente testuale, che sarebbe in ogni caso positivo, pur moderatamente irritato dall’eccessiva dilatazione narrativa dell’ultimo episodio (si può rilanciare sono fino a un certo punto, se si è continuamente rilanciato sul concetto del rapporto affettivo con la stalker: message sent).

FALLOUT

Assodato ormai che la serialità sembra affermarsi come il mezzo più efficace per adattare i videogame (da Halo a The Last of Us), si apprezza di Fallout la volontà di non prendersi troppo sul serio, pur mantenendo più linee narrative potenzialmente infinite, marchio di fabbrica di Nolan e Joy. Anche se insistendo su un immaginario ormai affollatissimo (quello del post-atomico, dell’iconografia desertica, della mutazione genetica), la serie conquista via via un’autonomia estetica di tutto rispetto grazie a un approccio ironico e spregiudicato. Potremmo definirlo utilmente atompulp. Valida anche la ricostruzione dell’America alternativa del passato, segnata dal design retrofuturista.

MANHUNT

Non meno incendiario di Civil War, e altrettanto astutamente fatto uscire nell’anno delle elezioni, Manhunt ci racconta le origini dell’America in perenne secessione ideologica. La caccia a John Wilkes Booth, assassino di Lincoln, è solo una scusa per portarci nelle retrovie della spaccatura nazionale, dove il razzismo e il capitalismo oligarchico sono due facce della stessa medaglia. Interessata anche a una certa precisione nel revival della cultura materiale, e con un’idea interessante di teatralizzazione del conflitto (Booth è un attore e in vari episodi lo spazio scenico è trattato in maniera teatrale), la serie – pur con passaggi a vuoto – si impone tra le più intelligenti dell’anno.

NIENTE DA PERDERE

RIEN À PERDRE Bande Annonce VF (2023, Drame) Virginie Efira, Arieh  Worthalter, Félix Lefebvre - YouTube

Potremmo discettare sul discreto esito del film, su come narra la solitudine e la vulnerabilità della protagonista, su come cerca di capire anche il punto di vista dei servizi sociali, su come quella vita quotidiana sa di vero, ecc ecc. Ma anche questo – come altri francesi degli ultimi anni – in verità possiede un solo motivo di passione cine-corpo-filiaca e ci sentiamo di ripeterla a seguire: Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira, Virginie Efira….

NEL (PER)CORSO DEL TEMPO. VIAGGI, LINEE, CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

BULLET TRAIN

Non è immediatamente chiaro che cosa vada storto in Bullet Train. Sul piatto c’è tutto quello che vorremmo nella tarda estate del 2022: un film privo di qualsiasi contenuto complesso, una linea orizzontale di action claustrofobico e sfrenato, il primo ruolo da vero protagonista di Brad Pitt da molto tempo a questa parte, la regia coreografica di David Leitch. Poi, mentre una sensazione di strano e indigesto letargo si impadronisce dello spettatore, ecco l’illuminazione. Bullet Train non doveva solo essere il pop corn movie su grande schermo in grado di umiliare gli action globalisti di Netflix, ma anche la ballata decervellata capace di traghettarci in un chiassoso spettacolo post-Covid e dentro un cinema da B-Movie da troppo tempo latitante. Abbiamo chiesto troppo? Probabile. Ma Leitch non ci regala qui né il bruciapelo tecnico di John Wick né cose come la scalinata-vertigo percorsa a suon di botte di Atomica bionda. A riprova che l’action è affare serissimo: per farne una cosa davvero bella, devi fingere di essere deficiente in maniera intelligentissima.

MEN

L’ignoratissimo Annientamento di Alex Garland, a parere di chi scrive, è forse il miglior film Netflix tra quelli che non hanno goduto di una finestra “di prestigio” nelle sale. Con quel film, Men ha più di un contatto: pur passando dalla fantascienza all’horror, in entrambi i casi si tratta di una donna che entra in una selva mentale, in un luogo oscuro fatto di natura e cultura, e che ritrova nell’alterità una dimensione spaventosa del nostro reale (o della sua psiche). Le accuse di programmaticità e semplicità metaforica sono decisamente ingenerose. Garland è un altro degli autori che ama lavorare su una dimensione allegorica evidente: non è che per essere bravi bisogna per forza sotterrare a metri dalla superficie i significati. Anche perché in questo caso Garland non finge certo di non capire. Il significato (mascolinità tossica) è lì da subito, caso mai si tratta di dare corpo e sangue a un concetto nel resto del racconto: è l’inquietudine con cui lo fa a contare (con venti minuti finali memorabili). Intriga, poi, la violenza con cui questo tema è trattato di recente (vedi Fresh o Una donna promettente). Infine: a quando il Jessie Buckley fan club?

UN’OMBRA SULLA VERITÀ

Vendereste la vostra cantina a uno strano sconosciuto che vi paga sull’unghia con evidente fretta di concludere l’affare? Se lo fate, rischiate di mettervi in casa un turpe antisemita. Si tratta solamente della prima sciocca azione di personaggi che agiscono in maniera inverosimile e sventata, e su cui bisogna esercitare una sospensione dell’incredulità particolarmente impegnativa. Le Guay (che certamente non è mai stato un regista particolarmente raffinato) taglia tutto con l’accetta: la cantina è il rimosso borghese del nazismo, il condominio è un covo di delatori che un tempo sarebbero stati collaborazionisti, la famiglia è un teatro di superficialità emotive. Se si aggiunge una sconsiderata apatia nel ritmo narrativo, ci sarebbe solo da liquidare il tutto. Eppure, vogliamo intravedere ciò che forse avrebbe potuto essere: ci sono schegge langhiane (la riunione di condominio), momenti che non sarebbero dispiaciuti a Clouzot (grazie a Cluzet, e non perché suona bene), rabbie indicibili sotto i palazzi parigini…. un film-fantasma che scorre sotto quello inguantato che vediamo.

RIMINI

Parlare di cinema del sadismo un tempo significava riferirsi a Buñuel, Pasolini o Roeg, poi più di recente a Haneke, Noé, Dumont e qualche volta Seidl. Che continua imperterrito il suo cinema che divide cultori e detrattori, i primi affascinati da un discorso filosofico sull’essere che probabilmente non esiste e i secondi indignati dall’assenza di sguardo e di pietas che tuttavia non sembra un modo razionale di porsi di fronte a un giudizio estetico. Se proviamo a disinnescare la polarizzazione, ci rimane proprio Rimini. Che è poca cosa, perché la lenta deriva di un triste cantante di balera, iconograficamente simile al Wrestler di Mickey Rourke, tra concerti in RSA e notti spompate da anziani gigolò, si arena nel più triviale simbolismo del mare in inverno: nebbioni, pensioni sfitte e strade vuote. Ci sono fantasmi di mélo, tentazioni porno, elementi di voyerismo gerontofilo (ma poi gerontofobo) e un arco di trasformazione prevedibilmente straniato. Ma chi ce lo fa fare?

200 METRI

I confini e i perimetri sono un po’ l’ossessione del cinema mediorientale e pro-Palestina. Giardini, alberi, steccati, case attraversate da una frontiera (ricordate Private di Costanzo?), e ora qui il muro che divide per soli 200 metri Mustafa dalla sua famiglia. Lui non accetta di dover chiedere un visto israeliano per lavorare, e il partito preso diventa l’innesco del mélo-thriller quando per il figlio deve poter superare quello spazio occluso. La linea retta diventa curvilinea se non ameboidale e i compagni di strada, più che adiuvanti, sembrano a loro volta agenti centrifughi. Come spesso accade nel cinema d’essai, anche questo titolo sembra più interessato al primato narrativo e alla confezione festivaliera che alla dimensione cinematica che avrebbe una storia simile avrebbe potuto sfoderare. Ameen Nayfeh, regista palestinese al primo lungometraggio, possiede comunque coraggio e lucidità. Speriamo in futuro in schemi meno esibiti.

THE HUMANS

MUBI sta crescendo in termini di distribuzione contemporanea. Prova ne è aver proposto uno dei piccoli casi indie dell’anno, la trasposizione cinematografica della pièce di Stephen Karam ad opera dello stesso autore. Su Internet si trovano stralci della pièce e interessanti interviste ad autore e attori sulla messa in scena teatrale. Il film ne dinamizza il set (chiuso, claustrale, un appartamento su due piani fatiscente e sinistro) attraverso diaframmi, incorniciature, recadrage e movimenti sinuosi di macchina, che – pur meticolosi – non sempre riescono a sviare la sensazione di essere sostitutivi dell’esperienza teatrale. Che forse avrebbe guadagnato dall’essere più rispettata, anziché (come spesso accade) movimentata. Il ritratto di famiglia attraverso cui si intravede un’America depressa, indebitata e impoverita si impone esplicitamente, mentre lo scricchiolio di un horror sotterraneo, che spinge metaforicamente dalle pareti, molto meno. Attori indiscutibili, ma si ha sempre voglia che compaia Shyamalan e trasformi tutto in Servant.