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Tag: David Lynch

SULLA MELODIA DELLE IMMAGINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE CONJURING – IL RITO FINALE

Questa volta la discrepanza tra successo (clamoroso) di pubblico e riuscita del film è acutissima. Avendo compreso che uno dei tratti vincenti della saga è rappresentato dal concetto di “familiarità” dei Warren, e che la wunderkammer del soprannaturale in casa loro è una perfetta metafora dell’irrazionale che “abita” in America, tutto ciò è stato didascalicamente esibito in questo quarto episodio (esclusi spin off). Col risultato di una torsione conservatrice, se non reazionaria, che James Wan aveva tenuto sapientemente a bada – e Michael Chaves no. Interpretazioni a parte, a non funzionare è proprio l’orrore: a parte un’interessante scena di rifrazioni (la prova d’abito della futura sposa), le idee visive e i tropi dell’orrore sono soporiferi. Basti pensare che il culmine della tensione è uno specchio che ruota su se stesso.

MATERIAL LOVE

In cerca del Sacro Graal di una rom com che abbia al contempo aspetti autoriali (Celine Song si sente tale) e la leggerezza del racconto per il grande pubblico, si rischia di perdere le proporzioni. Raramente si è vista una scrittura così magmatica e indecisa su quale direzione prendere. I temi si contraddicono di continuo, dal cinismo lubitschiano si passa alla rivendicazione woke, dall’inserimento forzato di aspetti sociali drammatici si slitta a questioni professionali, dall’idea di affermazione a quella di sacrificio. Alla fine, una commedia del ri-matrimonio che probabilmente scontenta molti, oltre che un’occasione sprecata per far interagire brillantemente Dakota Johnson (in versione anti-sfumature di grigio) e Pedro Pascal, punito da una sotto-trama “chirurgica” a dir poco sconcertante.

DOWNTON ABBEY – IL GRAN FINALE

Non bisogna burlarsi del senso di rassicurazione e protezione generata da questo terzo e ultimo capitolo della coda cinematografica nata dalla saga televisiva. Anzi, c’è da sorprendersi di quanto Julian Fellowes sia riuscito a mantenere riconoscibili sia l’universo di Downton sia le sua costanti simboliche (proprietari/servitori, progresso/tradizione, famiglia/disgregazione, ecc.). Il capitolo conclusivo, pur lasciandosi andare a qualche fan service di troppo, soddisfa tutti gli appassionati mettendo al centro il dominio dell’economia sul mondo moderno, e le logiche del capitalismo come boomerang per un’alta società di strutture gerarchiche ingessate. Attori in splendida forma, dialoghi (al solito) incessanti e densissimi, risate e pianti in sala. Difficile chiedere di più.

HIGHEST 2 LOWEST

Se questo doveva essere uno Spike Lee di quelli confusi e interlocutori, ben venga. Perché è sempre meglio di gran parte di quel che passa il convento in sala (anche se è su Apple TV+). In questa storia di rapimenti e riscatti all’interno dell’industria musicale newyorkese, Lee trova e ritrova il suo cinema ibrido, icastico, remixato, magari “anziano” – per quel che racconta, predica, sostiene – ma sostenuto da passione, energia cinematica, voglia di scazzottarsi col contemporaneo. Il “joint” ruota intorno alle note e alle parole: in fondo è un film sul repertorio musicale americano e su ciò che significa in termini sociali per le generazioni che si susseguono. E la giustizia privata è riparativa più che vendicativa. Finale commovente.

VELLUTO BLU

Torna in sala anche questo capolavoro. Velluto blu è il film chiave dell’opera lynchana perché impostato sul confronto tra luce e buio, perversione e innocenza, forze del bene e gorghi maligni. Lumberton è una superficie, tanto che nelle sue pieghe, al microscopio, si trovano orecchie tagliate e violenze oscure. Tuttavia in Lynch non c’è mai un ribaltamento vero e proprio delle apparenze bensì una giustapposizione, una compresenza stridente dove il male non inonda mai del tutto il bene e il bene non scioglie mai del tutto il male. Le due dimensioni restano a increspare il reale. Il volto trasparente e ineffabile di Kyle MacLachlan, lo sfregio simbolico della diva Rossellini, la morbosa ferocia di Dennis Hopper, le immagini potenti e dense collocano questo film, insieme al successivo Cuore selvaggio, nel pantheon del Lynch che porta a dialogare sperimentalismo e codici hollywoodiani.

TUTTO HERZOG

Circola per l’Italia un ricco omaggio a Herzog, in occasione del Leone d’Oro alla Carriera. Inutile dire che vanno visti e rivisti a tutti i costi su grande schermo. Si aggiunge Burden of Dreams, bellissimo documentario del 1982 diretto da Les Blank e dedicato alla folle disavventura del set di Fitzcarraldo. Sebbene si presti a esempio perfetto del titanismo herzoghiano e del suo rapporto con la natura, quest’ultimo è a parere di chi scrive il meno straordinario della sua filmografia itinerante. I deliri di Aguirre, la sorda pena per gli Stroszek, gli Hauser, i Woyzeck di questo mondo (con tutte le loro differenze, s’intende) sono forse i più potenti e indimenticabili. In attesa di Ghost Elephants – presentato a Venezia – che dovrebbe arrivare presto sui nostri schermi.

AUTORI TRA STRADE, LINEE E CONFINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

L’INNOCENTE

Il miglior film di Louis Garrel da regista non somiglia in nulla (giustamente) a quelli del papà. Il modello è il cinema borghese romantico, ironico e con venature di poliziesco di una certa tendenza francese anni ’70 (un mix consapevole di Sautet, Zidi, Lautner e altri). Se lui è simpatico ma gli romperesti il muso, trionfano piuttosto Anouk Grinberg e Noémie Berlant, esilaranti e passionali. Una prova di maturità in leggerezza, segno di intelligenza.

AUDITION

Rivedere Audition oggi non toglie “peso” all’esperienza, anzi. Cresce la politicità del racconto di Takashi Miike, mentre la violenza occupa un gradino meno essenziale rispetto al discorso che era necessario fare negli anni Novanta (ah, quanto ci mancano, cinematograficamente parlando). Più in generale, pur non essendo il titolo più importante di una filmografia caotica e dalle gerarchie imprendibili, c’è un motivo se dopo un quarto di secolo ci si dà la pena di ridistribuirlo.

STRADE PERDUTE

Si temeva che sul grande schermo il restauro 4K potesse smarrire la densità dei neri, ma per fortuna – visto che Lynch ha supervisionato il lavoro – continua ad essere il buio più materico e bello mai visto nel cinema contemporaneo. Oggi, in epoca bacchettona, arriva alle viscere soprattutto come opera sensuale, con Patricia Arquette vero perturbante erotico irriducibile, vero fantasma del desiderio nella totentanz freudiana che maestro David apparecchia per noi.

COPENHAGEN COWBOY

A Lynch deve molto anche Nicolas Winding Refn (anzi, NWR) con la sua sinuosissima serie Nerflix girata in Danimarca. Non estrema, osata e delirante come Too Old to Die Young, che era una specie di Scorpio Rising di ore e ore, Copenhagen Cowboy ne mantiene comunque l’idea di base: la serialità streaming può anche essere arte contemporanea in vitro, video-installazione in coma narrativo, tra Bruce Lee e la Marvel, tra Damien Hirst e il fashion film, tra le carezze techno di Cliff Martinez e il grugnito horror dei maiali affamati di carne umana. Fuck yeah.

KIMI

A pagamento su piattaforma arriva la penultima fatica di Soderbergh, nuova variazione claustrofobica sul rapporto tra uomo, capitale, architettura sociale e dispositivi di controllo. Leggermente meno ispirato del solito (a cominciare dal tema virale non sfruttato alle consuete altezze), rimane in ogni caso un sontuoso esempio di cinema da camera, di pressione psicologico-stilistica in spazi ristretti, un meta-film su Soderbergh autore solitario, al limite, confinato.

TRIESTE É BELLA DI NOTTE

Conquistato sul campo, il rispetto di cui gode Andrea Segre con i suoi documentari viene confermato da questa indagine sull’immigrazione della rotta balcanica. Utile, perché l’opinione pubblica si concentra sul Mediterraneo, e qui emergono storie atroci e ingiustizie ulceranti. Interessante la questione dei regolamenti, affrontata con precisione: i migranti accusati di illegalità sono respinti il più delle volte infrangendo la legge da parte dello Stato italiano.

LA LIGNE

Ossessionata dai segni sociali, dai confini e dai perimetri, Ursula Meier mette in scena una livida e sarcastica storia di tensione madre/figlia. Comincia con una magistrale scena di lite domestica, prosegue come ritratto di una giovane donna dal cazzotto facile e dal carattere spinoso, evolve come un mélo surreale, finisce ottenendo lacrime musicali. Vista la materia, avremmo sognato un minor auto-controllo registico su tutta la materia isterica, ma avercene di autrici così lucide.

I tre sguardi di “elephant man”

Quarant’anni dal capolavoro di David Lynch. Il restauro, attentamente coordinato dall’Immagine Ritrovata, e in particolare da Davide Pozzi, insieme allo stesso Lynch (dalla California), ripropone il bianco e nero di Freddie Francis in maniera intensa e classicizzante.

Avendo avuto il privilegio di introdurre il film, ho proposto al pubblico questo dubbio. Che cosa sarebbe stata la carriera di Lynch se l’equilibrio trovato questa volta e la fiducia accordatagli da Mel Brooks si fossero ripresentate per tutta la carriera? Nessuno ovviamente vorrebbe cambiare la magnifica carriera di David Lynch, a cui del resto chi scrive ha dedicato libri e saggi, ma quarant’anni dopo viene la tentazione di immaginare un Lynch completamente hollywoodiano e come sarebbe stato il suo cinema se si fosse svolto sempre all’interno della produzione ufficiale.

In ogni caso, come in altri articoli dedicati al Cinema Ritrovato 2020, ospitiamo un pezzo d’epoca, saccheggiando il catalogo del festival, e stavolta tocca a Serge Daney (Cahiers du Cinéma, aprile 1981):

“Nel corso del film John Merrick è oggetto di tre sguardi. Tre sguardi, tre epoche del cinema: burlesca, moderna,classica. O anche: il baraccone, l’ospedale, il teatro. C’è innanzitutto lo sguardo dal basso, quello del popolino,e lo sguardo (duro, preciso, brusco) di Lynch su questo sguardo. Ci sono sprazzi carnevaleschi, nella scena in cui Merrick viene ubriacato e sequestrato. Nello spettacolo da baraccone non c’è un’essenza umana da incarnare (nemmeno sotto le sembianze di un mostro), c’è solo un corpo da schernire. Poi c’è lo sguardo moderno, quello affascinato del medico, Treves: rispetto dell’altro e cattiva coscienza, erotismo morboso ed epistemofilia. Occupandosi dell’uomo elefante Treves salva se stesso: è la battaglia propria dell’umanista (alla Kurosawa).

C’è infine un terzo sguardo. Più l’uomo elefante è conosciuto e festeggiato, più coloro che gli fanno visita hanno il tempo di costruirsi una maschera, una maschera di cortesia che dissimula ciò che provano vedendolo. […]Il finale del film è molto commovente. A teatro, quando Merrick si alza nel suo palco perché coloro che lo applaudono possano vederlo meglio, non si sa più precisamente cosa c’è nel loro sguardo, non si sa più cosa vedono. Lynch è allora riuscito a riscattare – l’uno attraverso l’altra, dialetticamente – il mostro e la società. Ma solo a teatro, solo per una sera. Non ci saranno altre rappresentazioni”.