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Tag: Seth Rogen

CONTENITORI DI STORIE E VISIONI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

TRE CIOTOLE

Alle prime inquadrature dai contorni artisticamente bruciacchiati e ai primi colori autunnali color-corretti il cinefilo potrebbe dare in escandescenze. Il buon vecchio cinema medio-autoriale (come lo chiamavamo una volta) è ancora qui, imperterrito, nascosto dietro la macchina da presa della spagnola Isabel Coixet ma pur sempre italianissimo. Poi subentra il rispetto: per Michela Murgia, per chi ha cercato di trasformare il suo libro in qualcosa di diversissimo, e per gli attori (specie Alba Rohrwacher) che ci hanno creduto, salvando il salvabile, prosciugando una scrittura filmica salottiera e sentimentalista attraverso interpretazioni vibranti. Ma basterebbe la scena del piccione per capire tutto, anche se vorremmo non aver capito.

AMATA

Vedi sopra. Bisogna dire che Elisa Amoruso è una regista versatile e internazionale: per dire, ha diretto episodi di una delle migliori serie noir inglesi recenti (Dept. Q) e lavorato a tanti documentari e lunghi di finzione, e altre serie che ha adattato, sceneggiato, diretto (Fedeltà). Il sospetto che la critica privilegi l’autorialismo di colleghi maschi (non più coerenti di lei) c’è. Detto questo, Amata è drasticamente diviso in due, come la storia parallela: i due coniugi borghesi (Accorsi e Leone, spaesati) sono il cliché dell’alta borghesia; la ragazza-madre (al solito perfetta Tecla Insolia) funziona molto meglio. Sl tema della maternità si nuota molto in superficie.

CONFITEOR

Bonifacio Angius gode di una meritata fama critica. Sembra essere proprio come lo vedi (o lo leggi sui social), senza pose: genuino, macerato, irascibile, talentuoso. Qui arriva al suo fatidico meta-film, che ha da dire al cinema italiano cose simili di quelle che ha detto Franco Maresco, forse l’unico autore più intrattabile di lui (sullo schermo s’intende). In più, Angius denuda i dolori famigliari mettendosi in scena col figlio, mescolando le generazioni con urticante ironia. Si sta al gioco, per affetto: ci piace chi mette un dito nell’occhio delle aspettative. Non è chiara, però, la scelta di uno stile così amatoriale (il bianco e nero da corto studentesco, l’estetica iperdigitale, la recitazione pedante). L’idea è “disimparare il cinema” per rifarlo da capo? Mumble mumble.

STEVE

Monumento per Cillian Murphy. Potete metterlo in un museo e giragli intorno, tipo installazione, e avrete un’esperienza appagante. I suoi registi lo sanno, e capita talvolta che le storie cucite intorno a una personalità così originale non siano troppo elaborate. Come nel caso di Steve, uscito direttamente su Netflix. Mielants è un regista un po’ grossolano (come si può notare nel rapporto tra immagini e musica, o in montaggi paralleli a dir poco scolastici), e lascia a Murphy il compito di dare tutta la credibilità possibile al suo educatore alle prese con giovanissimi teppisti, esclusi dalla società e scartati dalle famiglie. Un tuffo nel welfare (negato) inglese, tra Adolescence e Loach, senza infamia e senza lode.

DEXTER: RESURRECTION

Accanimento terapeutico o adorabile tea party con il nostro serial killer di famiglia? La seconda. Anzi, molto meglio ora, con questo revival del Dexter Universe, rispetto alle ultime stagioni della serie originale. La verosimiglianza è stata riposta in armadio con ironia (basti pensare al risveglio “post mortem” che dà il via al sequel). L’idea del ritrovo tra psicopatici organizzato da un miliardario mortifero somiglia parecchio ai nuovi club del Potere americano (quelli legali, tra Casa Bianca e Big Tech). E la sete di giustizia sanguinosa di Dexter, anche papà devoto, fa il resto, costringendoci a tifare per lui. Basta non prenderlo – né prendersi – troppo sul serio, guardandolo. PS: Uma Thurman, però, meritava un personaggio più ricco, un po’ di rispetto per la dea, perbacco.

BLACK RABBIT

Se ci mettiamo a fare l’elenco di ciò che non funziona, non finiamo più. Tra le altre cose: forzature e inverosimiglianze nei tasselli della struttura narrativa; una certa antipatica disinvoltura nell’accumulo dei temi (criminalità, debiti, violenze di genere, traumi psicanalitici ecc.), ritmo non sempre sotto controllo. Ma se invece, come sempre preferiamo, applichiamo un più generoso sguardo “seriofilo” scopriamo una miniserie potente e oscura, che ha un bel motore narrativo definibile come “The Bear se fosse un noir con rapine, truffe e omicidi”. L’impianto del crimine che risucchia il cittadino borderline è quello di Ozark, e infatti Jason Bateman è dominus (attore, regista, produttore), e sempre da lì arriva Laura Linney in veste di regista di alcuni episodi. Jude Law gigioneggia, ma è così che lo vogliamo.

PLATONIC 2

La miglior comedy degli ultimi anni (frutto del talento della coppia Delbanco/Stoller, un po’ gli Sherman/Palladino del momento) si conferma in questa seconda stagione, pur vagamente interlocutoria. La tensione erotica tra i due vecchi amici viene definitivamente sterilizzata in nome di un “buddy/buddy” goliardico in cui il produttore e protagonista Seth Rogen batte i sentieri che gli sono più noti. Ma come al solito è Rose Byrne a stupire, spostando sempre più avanti il mix tra apparenza aristocratica e disponibilità alla deriva demenziale. Si pesca dalla screwball comedy e dalla storia della sitcom con grande consapevolezza di scrittura e annotazioni acidissime sull’America delle famiglie tradizionali e dei cuori solitari un po’ tagliati fuori dalla società.

IMPRONTE E VESTIGIA DI RACCONTI SERIALI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE LAST OF US 2

Con quale set critico dobbiamo guardare alla seconda stagione del prodotto di punta HBO? L’ossessione per l’adattamento fedele di certi passaggi del videogame sembra diventato un ostacolo più che una qualità, per una probabile incomprensione del campo d’azione potenziale tra un videogame che si nutre dell’immaginario zombi pre-esistente e una serie condannata ad essere “la miglior versione narrativa di un videogame di sempre” (siamo sicuri?). Inoltre, la scarsità delle varianti (i post-umani e le loro evoluzioni biologiche; l’erranza nell’America distrutta; la balcanizzazione delle tribù dei sopravvissuti) non pone scampo al senso di déjà vu generale, soprattutto nei confronti di The Walking Dead. Un finale di raro masochismo, poi, conferma che da questa serie c’è ormai poco da aspettarsi in futuro (indipendentemente dai suoi alti valori produttivi).

THE STUDIO

Blanda satira della Hollywood contemporanea, interessante per vari motivi. Il primo è che una serie da piattaforma (Apple) celebra sia pure sarcasticamente la grandiosità del cinema e mette al centro personaggi che parlano solo di grande schermo. Il secondo è che tra un blockbuster e Boris i problemi sembrano gli stessi. Il terzo è che anche lo stile è “cinematico” (piani-sequenza, grana da pellicola, location originali, cura maniacale in controtendenza rispetto alle altre comedy da mezzora). Tante contraddizioni curiose, insomma, e alcuni momenti esilaranti, principalmente grazie alla testa di Seth Rogen e alla presenza strepitosa di Bryan Cranston.

DYING FOR SEX

Interessante ribaltamento di eros e thanatos. Normalmente si parte dal primo per scoprire poi che il secondo è in agguato (da Freud a Hitchcock le cose stanno così, forse Cronenberg ha rovesciato il tavolo tra i primi). Qui, in una dramedy da bundle Disney+, si parte da thanatos (una diagnosi tumorale che non lascia scampo) e si costeggia la sessualità, in una ricerca del piacere troppe volte perduto, da assaporare proprio mentre il corpo svanisce. Certo non manca il coraggio a Dying for Sex, e alla protagonista Michelle Williams. Nuocciono solo alcuni vezzi da prestige TV, alcuni siparietti visionari inguardabili, e una generale corsa al weird che a volte pare dimostrativa. Ma è un esperimento riuscito, in linea con tempi in cui dobbiamo re-imparare a gestire l’idea della morte e della finitezza.

BLACK MIRROR 7

Nulla che cambi la percezione delle ultime stagioni. Black Mirror rimane preziosa perché è l’unica fantascienza non apocalittica, non millenarista, non distopica, capace di ragionare sulle trasformazioni della società in un futuro non troppo distante. Tenendo al centro elementi tecno-scientifici, ne proietta le ombre sulla nostra esistenza pesantemente mediatizzata. Al solito, ci sono episodi più riusciti di altri (il primo, il secondo e soprattutto il quinto, Eulogy) e coma sempre i finali rappresentano il più grosso problema di Charlie Brooker in sede di scrittura. Tuttavia, non avendo un Twilight Zone dei nostri tempi, accontentiamoci di ciò che gli si avvicina maggiormente.

DAREDEVIL – RINASCITA

Dopo il tentativo non disprezzabile dell’era Marvel/Netflix, Disney+ recupera l’eroe più amato di allora e gli dà un futuro, incastonandolo nella mestissima fase 5 appena conclusa. In quest’epoca di strani ibridi streaming con stile da TV generalista, Daredevil non sfigura, anche se sacrifica molto dei due nemici (Murdock e Fisk) per buona parte della stagione. Non ci fosse stato l’eccellente The Penguin (universo DC) forse avremmo apprezzato di più le riflessioni su vigilantismo, città-stato, democrazie in pericolo, leader para-trumpiani, di questa specie di Gotham marvellizzata. Probabilmente Dario Scardapane ha lavorato più sulla scrittura industriale che sulla singolarità del personaggio.

1923

Si conclude in due stagioni il prequel di Yellowstone, con alcune indicazioni narrative importanti per la connessione inter-generazionale dei personaggi. Meno perfetta e struggente di 1883, 1923 ha dalla sua un chiarissimo progetto narrativo: il feuilleton d’avventure a puntate. Chi si lamenta degli eccessi di trama o della sovrabbondanza d’azione, si ascolti il dialogo in cui si cita Edgar Rice Burroughs: più chiaro di così. L’ibridazione tra western e avventura esotica, tra cinema di genere e serial muto alla The Perils of Pauline si esprime a livello elementare, epidermico, con passione pari solo alla voglia di esplorare la fondazione americana da parte di Taylor Sheridan. Le cui serie, a quanto pare, rimangono indigeste al critico medio democratico liberal. Eppure non dovrebbero, perché è l’unica alternativa non trumpiana che racconta l’America profonda di ieri e di oggi, e che cosa vuole dire MAGA per tanti cittadini statunitensi (fuor di propaganda).