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Tag: The Conjuring – Il rito finale

SULLA MELODIA DELLE IMMAGINI

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

THE CONJURING – IL RITO FINALE

Questa volta la discrepanza tra successo (clamoroso) di pubblico e riuscita del film è acutissima. Avendo compreso che uno dei tratti vincenti della saga è rappresentato dal concetto di “familiarità” dei Warren, e che la wunderkammer del soprannaturale in casa loro è una perfetta metafora dell’irrazionale che “abita” in America, tutto ciò è stato didascalicamente esibito in questo quarto episodio (esclusi spin off). Col risultato di una torsione conservatrice, se non reazionaria, che James Wan aveva tenuto sapientemente a bada – e Michael Chaves no. Interpretazioni a parte, a non funzionare è proprio l’orrore: a parte un’interessante scena di rifrazioni (la prova d’abito della futura sposa), le idee visive e i tropi dell’orrore sono soporiferi. Basti pensare che il culmine della tensione è uno specchio che ruota su se stesso.

MATERIAL LOVE

In cerca del Sacro Graal di una rom com che abbia al contempo aspetti autoriali (Celine Song si sente tale) e la leggerezza del racconto per il grande pubblico, si rischia di perdere le proporzioni. Raramente si è vista una scrittura così magmatica e indecisa su quale direzione prendere. I temi si contraddicono di continuo, dal cinismo lubitschiano si passa alla rivendicazione woke, dall’inserimento forzato di aspetti sociali drammatici si slitta a questioni professionali, dall’idea di affermazione a quella di sacrificio. Alla fine, una commedia del ri-matrimonio che probabilmente scontenta molti, oltre che un’occasione sprecata per far interagire brillantemente Dakota Johnson (in versione anti-sfumature di grigio) e Pedro Pascal, punito da una sotto-trama “chirurgica” a dir poco sconcertante.

DOWNTON ABBEY – IL GRAN FINALE

Non bisogna burlarsi del senso di rassicurazione e protezione generata da questo terzo e ultimo capitolo della coda cinematografica nata dalla saga televisiva. Anzi, c’è da sorprendersi di quanto Julian Fellowes sia riuscito a mantenere riconoscibili sia l’universo di Downton sia le sua costanti simboliche (proprietari/servitori, progresso/tradizione, famiglia/disgregazione, ecc.). Il capitolo conclusivo, pur lasciandosi andare a qualche fan service di troppo, soddisfa tutti gli appassionati mettendo al centro il dominio dell’economia sul mondo moderno, e le logiche del capitalismo come boomerang per un’alta società di strutture gerarchiche ingessate. Attori in splendida forma, dialoghi (al solito) incessanti e densissimi, risate e pianti in sala. Difficile chiedere di più.

HIGHEST 2 LOWEST

Se questo doveva essere uno Spike Lee di quelli confusi e interlocutori, ben venga. Perché è sempre meglio di gran parte di quel che passa il convento in sala (anche se è su Apple TV+). In questa storia di rapimenti e riscatti all’interno dell’industria musicale newyorkese, Lee trova e ritrova il suo cinema ibrido, icastico, remixato, magari “anziano” – per quel che racconta, predica, sostiene – ma sostenuto da passione, energia cinematica, voglia di scazzottarsi col contemporaneo. Il “joint” ruota intorno alle note e alle parole: in fondo è un film sul repertorio musicale americano e su ciò che significa in termini sociali per le generazioni che si susseguono. E la giustizia privata è riparativa più che vendicativa. Finale commovente.

VELLUTO BLU

Torna in sala anche questo capolavoro. Velluto blu è il film chiave dell’opera lynchana perché impostato sul confronto tra luce e buio, perversione e innocenza, forze del bene e gorghi maligni. Lumberton è una superficie, tanto che nelle sue pieghe, al microscopio, si trovano orecchie tagliate e violenze oscure. Tuttavia in Lynch non c’è mai un ribaltamento vero e proprio delle apparenze bensì una giustapposizione, una compresenza stridente dove il male non inonda mai del tutto il bene e il bene non scioglie mai del tutto il male. Le due dimensioni restano a increspare il reale. Il volto trasparente e ineffabile di Kyle MacLachlan, lo sfregio simbolico della diva Rossellini, la morbosa ferocia di Dennis Hopper, le immagini potenti e dense collocano questo film, insieme al successivo Cuore selvaggio, nel pantheon del Lynch che porta a dialogare sperimentalismo e codici hollywoodiani.

TUTTO HERZOG

Circola per l’Italia un ricco omaggio a Herzog, in occasione del Leone d’Oro alla Carriera. Inutile dire che vanno visti e rivisti a tutti i costi su grande schermo. Si aggiunge Burden of Dreams, bellissimo documentario del 1982 diretto da Les Blank e dedicato alla folle disavventura del set di Fitzcarraldo. Sebbene si presti a esempio perfetto del titanismo herzoghiano e del suo rapporto con la natura, quest’ultimo è a parere di chi scrive il meno straordinario della sua filmografia itinerante. I deliri di Aguirre, la sorda pena per gli Stroszek, gli Hauser, i Woyzeck di questo mondo (con tutte le loro differenze, s’intende) sono forse i più potenti e indimenticabili. In attesa di Ghost Elephants – presentato a Venezia – che dovrebbe arrivare presto sui nostri schermi.