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Tag: Wim Wenders

LA CORNUCOPIA DEL CINEMA

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. 

L’ANNO NUOVO CHE NON ARRIVA

Non ci sono più aggettivi per definire la cornucopia di autori provenienti dal cinema romeno. Curiosamente mancava il “grande film” su Timisoara. Ci prova l’esordiente Bogdan Mureșanu, e ci riesce, vincendo Orizzonti 2024. L’idea-chiave è raccontare la rivolta attraverso alcuni personaggi qualsiasi, con struttura a episodi vagamente intrecciati, che illumina le giornate di dicembre 1989 con gli strumenti della commedia nera. Più accessibile di Jude e forse anche di Mungiu, l’autore guarda a Monicelli, Scola e persino Lelouch (si veda l’uso del bolero finale), oscillando tra satira tagliente (basti pensare al tentato suicidio o alle letterina per Babbìo Natale) e sincera indignazione. Senza rinunciare a nessuna delle due.

PUT YOUR SOUL ON YOUR HAND AND WALK

Come fu per la Siria (conflitto dimenticato, e purtroppo cinema dimenticato) anche la tragedia di Gaza stimola forme stilistiche. Se La voce di Hind Rajab aveva spinto il doc nella finzione, rischiando, Sepideh Farsi lavora sugli schermi. Quello del tablet/smartphone è l’unico contatto possibile con una giornalista palestinese, l’unico possibile per vedere le sue foto e ascoltare la sua voce. Anche stavolta, la fine è purtroppo nota. Quella registrazione insiste a ricordarci che la morte dalle bombe arriva in mezzo secondo mentre le storie al cinema durano due ore con cui conosciamo vite intere, rimanendo sconcertati e annichiliti dal “the end”. Inquadrare uno schermo è questione di morale.

DIE MY LOVE

L’inizio è esaltante. Inquadratura fissa, una casa e i suoi fuori campo, una coppia e il suo futuro – sembra uno spin off di Here. E poi la musica urticante con cui i due segnano il territorio. E poi una pancia, e poi l’infanzia, anti-malickiana, perché in quella casa dentro la natura c’è soprattutto frustrazione. Dopo, però, Lynne Ramsay – pur mantenendo un interessante approccio al vetriolo, antifrastico e pieno di graffi – si adagia pian piano nell’ennesima lettura metaforica della depressione post parto e materna (da Baby Ruby a Nightbitch il cinema sembra solo sfiorarne il pozzo profondo), con un finale a dir poco irritante. Peccato per Jennifer Lawrence, scatenata (Robert Pattinson spaesatissimo, invece).

ZOOTROPOLIS 2

Byron Howard e Jared Bush tornano con un secondo episodio a distanza di anni – anche perché non era all’inizio evidentissimo quanto il capostipite avrebbe attecchito nell’affetto del pubblico. A Zootopia stavolta ci sono nuovi capri espiatori, anzi rettili espiatori, e la coppia Judy/Nick – sempre più buddy comedy – deve sbrigliare un nuovo complotto. Qua e là le esigenze di ricalcare il primo episodio (molto simile come struttura) frenano il potenziale, così come la quota action rischia di prevalere, ma il discorso anti-razzista e forse anti-trumpiano si staglia netto. Animazione di nitore impressionante, citazioni riuscite, e una qualche aria da Chinatown. Al proposito: non è Rango (strepitoso e poco ricordato) ma si gode comunque.

TRAIN DREAMS

Direttamente su Netflix arriva un “attenzionato” da Oscar: il western di Clint Bentley passato al Sundance. Un monumentale Joel Edgerton offre corporeità ed espressione all’uomo qualunque raccontato da Denis Johnson nel suo bellissimo romanzo, di cui Train Dreams è trasposizione temeraria. Proprio dal lato narrativo arrivano le cose migliori, per la voce fuori campo e la meditazione solitaria di un destino comune a tanti anti-eroi di frontiera d’inizio Novecento – in un’America sterminata, inospitale, durissima. Lo stile malickiano funziona meno, per un semplice fatto: non c’è Malick dietro la mdp. Nulla che 1883 di Taylor Sheridan non abbia raccontato alla grande, ma sicuramente dignitoso e profondo.

LA FEBBRE DELL’ORO

Sono passati cento anni ed è stupefacente osservare con questo restauro 4K la modernità irriducibile del Chaplin forse più sperimentale di sempre. Lo spiazzamento, ogni volta che si guarda The Gold Rush, è comprendere che si tratta principalmente di un dramma: è il Greed di Charlot. Ci sono avidità, violenza, pazzia. E c’è un survival dentro cui si sviluppa una passione romantica unilaterale e folle (si veda la sequenza in cui il vagabondo impazzisce di gioia perché pensa di aver ottenuto un appuntamento dall’amata: è il delirio). Poi – certo – ci sono le scene da antologia slapstick, la casa che penzola, la scarpa bollita, la danza delle forchette, e tutta la poesia chapliniana. Ma nulla pareggia la solitudine che esprime, dentro una struttura a tre atti decostruita dall’interno. Indimenticabile.

FINO ALLA FINE DEL MONDO

Nessuno ha mai visto davvero Fino alla fine del mondo (1991). La Director’s Cut restaurata in 4K, supervisionata dalla Wim Wenders Stiftung, che CG Entertainment porta nelle sale italiane, è la forma definitiva di quasi 5 ore. A distanza di oltre 30 anni, si capisce molto meglio la clamorosa lungimiranza di Wenders nel parlare di immagine elettronica. Non senza un certo afflato predicatorio (tipico del regista a cavallo tra Ottanta e Novanta, che oggi appare assolutamente perdonabile), il film assume in digitale (sbalorditivo, peraltro) una coerenza assoluta. Il rapporto tra road movie – paesaggio esterno – e registrazione dei sogni – paesaggio interiore – recupera un respiro perfetto, così come i personaggi (fin troppo ermetici nella versione di allora) ridiventano verticali. Una sfida alla pazienza? Sì, ma ripagata con gli interessi.

THE PITT

Che cosa chiediamo al medical drama? Domanda essenziale per capire che cosa fare di The Pitt. Da una parte non c’è nulla di nuovo: un pronto soccorso, ovviamente acqua alla gola, ovviamente sotto organico, ovviamente con mille problemi personali, ovviamente con casi bizzarri e pericolosi da affrontare. Dall’altra c’è un consapevole rapporto intertestuale con E.R. e su come rappresentare questi spazi da trincea del corpo ferito, c’è Noah Wyle che gioca con la sua storia, c’è una formula alla 24, quindi c’è un rapporto teorico con certa serialità Novanta/Duemila che diventa scuola estetica. E il mini-ciclo interno di episodi sulle vittime di un attacco terroristico è davvero mozzafiato.

GIRO DI CINEMA TRA TERRA E CIELO

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.

ANORA

Destrutturazione molecolare dei tre atti della commedia americana, il nuovo racconto americanologico di Sean Baker sceglie una traiettoria spiazzante e amorfa. La giuria di Cannes 2024, facendosi dire “non sarà troppo una Palma per questa commediola?” ha dato lezione di cinefilia, scoprendo la dimensione elitaria del gusto festivaliero. In verità si tratta – come ha detto Ilaria Feole e confermato da Baker – di Le notti di Cabiria meets John Hughes. E già questo basta, Ma in più abbiamo un’analisi di un sogno migratorio americano totalmente rovesciato, un’analisi dei rapporti di classe attraverso l’uso del corpo, e una disamina filosofica della distruzione della realtà illusoria (mai visto un personaggio ricondotto alla sua mediocrità quanto il protagonista). Sorprendente.

FLOW

FLOW - Un mondo da salvare 02 - Teodora Film

Che stagione per l’animazione (di tutti i tipo, si pensi solo a Invelle e Il robot selvaggio)! Il film di Gints Zilbalodis, senza dialoghi e senza esseri umani, può essere considerato un tempestivo racconto di abissalità naturale in epoca di panico climatico. E se il gattino protagonista riesce ad essere straordinariamente credibile nelle sue movenze, è invece in un’astrazione anti-mimetica che si nasconde il valore del film, a-temporale (quando è ambientato?) e universalistico (la solidarietà tra specie giunge attraverso una negoziazione tutt’altro che lineare con gli istinti). Eccezionali anche i piani-sequenza, per quanto animati, e la rappresentazione dell’acqua, che funziona sia come specchio sia come microcosmo di vita e di morte.

BERLINGUER

C’è chi ha citato il Rossellini didattico, per il nuovo lavoro di Segre. Non sapremmo se essere d’accordo (e magari con qualche dubbio storico su quel Rossellini), certo è che Berlinguer si gioca su una lotta sottilissima tra cinema e baratro del docu-drama televisivo stile RAI. Autore e sceneggiatore sono troppo intelligenti per cadere nel burrone, ma la dimensione pedagogica è talvolta così sottolineata da rischiare l’irritazione. L’altra battaglia – su come si lavora, oggi, con i materiali d’archivio nell’epoca in cui tutti lo fanno – è anch’essa al limite. Di fondo, un film sulla perdita: della sinistra, certo, ma anche di un intero sistema sociale, quasi da far sospettare che si rimpianga la separazione netta tra le classi e tra gli elettorati piuttosto che cantare la nostalgia dell’azione politica.

IL RAGAZZO DAI PANTALONI ROSA

Per fortuna che dietro la macchina da presa c’è una regista cinefila. Altrimenti questo sarebbe stata la solita lezione morale tratta dalla cronaca, con il ditino alzato e l’inutilità assoluta del parlare ai già convinti. Avendo invece trasformato la storia del protagonista in un coming-of-age adolescenziale tenero e stratificato (con suggestioni pop tra Harry Potter e il cinema alla Stand By Me), l’autrice ha buon gioco nel moltiplicare la virulenza del comportamento bullistico e l’insopportabilità della perdita. La cosa migliore, in fondo, non è tanto la denuncia della violenza quanto lo spreco irreparabile del potenziale umano e del futuro adulto, in particolare la fine del rapporto con l’amica del cuore, vero carburante emotivo del racconto.

QUI NON È HOLLYWOOD

Dopo tante polemiche inutili e infantili, il lavoro di Mezzapesa si rivela uno dei migliori true crime di questi anni. Non solo viene superato d’un balzo il malefico sensazionalismo delle docu-serie (come quella irricevibile su Yara), ma viene costruito anche una narrazione a mosaico abbastanza inedita – pochi hanno notato che i punti di vista diversi si passano il testimone mentre il racconto avanza cronologicamente (non è Rashomon, insomma). A parte i virtuosismi sceneggiatoriali, Qui non è Hollywood funziona – a dispetto del titolo – proprio perché è un po’ americano: quanti avrebbero lodato la disamina della provincia statunitense se al posto di Avetrana ci fosse stato un paesino della Louisiana o del Texas? Ecco, la stessa cosa – sul puritanesimo, la pochezza umana, il ruolo tossico della famiglia tradizionale, la perdita di punti di riferimento sociali – viene svolta qui.

PARIS, TEXAS

Wim Wenders è tornato. Gli ultimi tempi già segnati dal commovente Perfect Days e dal ritorno in sala di Il cielo sopra Berlino si arricchiscono del restauro (magnifico, e ve lo dice chi non è grande appassionato di colori in 4K) di Paris, Texas. Quel che allora era parso un racconto potente segnato da qualche dispersione, e da alcuni auto-compiacimenti in salsa shepardiana, mostra 40 anni dopo una limpidezza straordinaria, una trasparenza classica che lo sospinge verso la New Hollywood molto più che verso il cinema d’autore internazionale di oggi. E anche le rappresentazioni iper-realistiche del paesaggio USA, per quanto iconograficamente note, restano spettacolari e toccanti, quanto lo è Nastassja Kinski, di rara vulnerabilità.

(IM)PERFEZIONE DEL CINEMA E POLITICHE D’AUTORE

Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi. In questa puntata, solo tre titoli affrontati un po’ più a lungo.

PERFECT DAYS

Ritorno in grande stile di Wim Wenders dopo alcuni anni di appannamento (in particolare nel cinema di finzione, mentre nel campo del documentario si erano viste cose buone, anche se non all’altezza del compagno di strada Herzog). Perfect Days spiega la differenza tra film “buono” e film “buonista”, depurando ogni forma retorica di feelgood movie attraverso una strategia di “rarefazione ripetitiva” che – proprio attraverso la scansione della giornata e l’interazione con le geometrie architettoniche dei bagni pubblici di Tokyo – costruisce un ambiente narrativo e iconografico capace poi di assorbire le svolte drammaturgiche più mélo. Filmare la dignità, del resto, è impresa per pochi, e Wenders la compie con pochi, significativi gesti cinematografici (e un attore protagonista perfetto come il titolo): la breve sequenza con la sorella oggi potrebbe essere girata da ben pochi altri autori (forse Eastwood). Bisogna invece aspettare la fine dei titoli di coda – e speriamo che almeno i cinefili lo abbiano fatto – per conoscere la parola giapponese che indica la luce cangiante che traspare attraverso gli alberi: essa cambia ogni volta, così a dimostrare che immobilità del quotidiano (attraverso il controllo del tempo) e sorpresa fenomenica sono due forze da mantenere in equilibrio instabile mai uguale a sé stesso. Inoltre, lampi di Ozu (pur meno di quanto si dica) e di Tati (alcune gag sulla “modernità”, specie quelle dei bagni che si oscurano, ricordano Hulot) saettano lungo il racconto. Ovviamente il tema della vita analogica contro la superficialità della vita digitale nasconde un certo conservatorismo, ma Wenders si può permettere di fare il moralista – nel senso settecentesco del termine. Ed è curioso che in un film nel quale le traiettorie urbane sono tutte simili e centripete il ricordo corra alla Trilogia della strada degli anni Settanta, anche per la scelta della musica che accompagna il viaggio in auto – un canone e un repertorio noti, ma comunque struggenti. Insomma, sinceramente, una vera sorpresa.

IL RAGAZZO E L’AIRONE

Per quanto abbiamo imparato a conoscere Miyazaki, per quanto ormai la letteratura sul suo cinema sia ampia e circostanziata, capiremo questo film tra 20 anni. Densissimo racconto di formazione, riflessione a strati sul mondo e sui mondi, meditazione composta ma angosciata sulla rovina dell’ambiente come ecosistema collettivo, catalogo di metamorfosi e di forze simboliche, elogio delle figure femminili (che si versano l’una dentro l’altra in diversi stati anagrafici), tripudio di arte del disegno che – come al solito – diviene lezione di rappresentazione figurativa in atto, infine anche canto pacifista di fronte al concetto di guerra immanente con i consueti fantasmi del trauma bellico qui ancora più profondi del solito: tutto questo fa parte dell’ultimo capolavoro del maestro, dieci anni dopo il formidabile Si alza il vento (che aveva spiazzato molti, in verità). Inspiegabile il tentativo di alcuni di produrre classifiche interne alla filmografia dell’autore: Il ragazzo e l’airone è un’opera primaria e maestosa e – come detto – oscura, i cui temi e significati necessitano di tempo per sedimentare ed essere analizzati. Di immediato, invece, c’è il successo clamoroso del film, a dimostrazione che la cultura della conoscenza (la patrimonializzazione di un autore) permette di costruire un pubblico curioso e rispettoso.

ENEA

Che ci si possa scannare sui social per un’opera seconda di Pietro Castellitto è cosa che desta meraviglia. Ma se ci allontaniamo dalle forme più isteriche di simpatia o antipatia nei confronti del figlio d’arte (di questo, più che del film in sé, si parla in giro), troviamo la naturale evoluzione dell’autore di I predatori. Pur con maggior programmaticità e avendo forse lasciato un po’ troppo in ombra il lato comico più spassoso che emergeva nell’opera prima, Castellitto si conferma sostanzialmente l’unico a fare cinema surreale generazionale, lontano da tutto l’impegno, l’allegoria, l’indagine sociale e le battaglie ideologiche di altri autori nostrani. La forma a scenette giustapposte lo fa sembrare un Ecce Bombo post-cafonal e tutto interno alla borghesia conservatrice, che viene scuoiata senza porsene al di fuori: il protagonista è sostanzialmente una merda arrogante, e il volto del regista/attore è talmente irritante che vorresti prenderlo a badilate. Ma il profluvio di idee, bizzarrie, gag, intuizioni spiazzanti, frustrazioni contorte, squarci di emotività, dentro un catalogo di soluzioni stilistiche che sembrano annientare ogni coerenza e continuità, pretende di essere preso sul serio e sicuramente copre uno spazio che nel cinema italiano (lo chiameremo già post-sorrentiniano?) al momento non esiste. Peccato per un personaggio femminile (Benedetta Porcaroli) passivo e buttato via. All’opera terza capiremo se le ambizioni andranno oltre la passione per il sabotaggio meta-borghese.