Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
THE WHALE
Conferma quasi tormentosa della poetica corporea di Darren Aronofsky: il racconto claustrofobico cozza contro il fisico debordante (prostetico) di Brendan Fraser. Ci sono due film in uno: quello borghese, d’essai, da Oscar teatralizzato, e quello biblico, mostruoso, eccedente che piace al regista; cioè la fusione perfetta tra Madre! e Noah, bingo con cui Aronofsky frega chi lo aspettava di due varchi. Ultima nota: le metafore dei protagonisti in scena (cura, religione, famiglia, professione, arte) somigliano ai personaggi-allegoria di Bussano alla porta.
EMPIRE OF LIGHT
Maltrattato perché erroneamente paragonato a The Fabelmans (quando in verità non c’entra niente). La sala cinematografica di Mendes è principalmente lavoro: i commessi sono depressi o bullizzati, e la tenerezza tra due esclusi serve principalmente a un affresco intimo e storico sui primi anni della Thatcher. Poi c’è anche la parte tornatoriana della proiezione salvifica, ma tutto sommato attutita dalla prova mostruosa di Olivia Colman (mi spiace per chi lo ha visto doppiato), dalla fotografia semplicemente prodigiosa di Roger Deakins (che torna alle sue prove da fotografo di provincia) e dalla musica di Reznor e Ross, puramente pianistica e ormai estranea a ogni rumore industriale.
SHARPER
Nessuno ha ancora capito quale sia il pubblico del “cinema” di Apple+TV, che continua a finanziare un sacco di titoli a fondo perduto. Questo thriller che sembra tornare al postmodernismo narrativo dell’epoca fincherian-soderneghiana anni ’90 (senza averne minimamente la politicità) funziona solo come pleasure nemmeno troppo guilty. Mangiata la prima polpetta avvelenata, lo spettatore scafato – o anche solo sveglio – non tarderà a prevenire il meccanismo. Ovviamente Julianne Moore vale sempre il biglietto (o mezzo abbonamento).
MIXED BY ERRY
La premiata ditta Rovere/Sibilia continua a macinare cinema e serialità con un’esuberanza progettuale che va celebrata. Non sempre le ciambelle escono col buco (doloroso il passo falso di L’incredibile storia dell’Isola delle rose), ma c’è l’intelligenza di applicare sempre la stessa idea (storia vera di giovani che sfidano la legge attraverso forme creative) in diversi contesti storici e geografici. Qui funziona quasi tutto, anche se con eccessi di durata, a cominciare da attori e vicenda, che sfiora la dimensione teorica: il falso che viene autenticato solo quando viene a sua volta falsificato.
LAGGIÙ QUALCUNO MI AMA
Il documentario d’autore sui grandi del cinema italiano si sta divaricando tra i grandi nomi che vi si applicano (Tornatore, qui Martone) e i più piccoli che combattono la loro battaglia sullo stesso campo (Alessandro Bencivenga, Francesco Zippel, ecc.). Merito di Martone è di fare sostanzialmente un video-saggio pacato e profondo su Troisi, lasciando parlare molto le sue sequenze più belle, facendo interviste acute, mostrando cinefilia – e la presenza dei critici di Sentieri Selvaggi ne è riprova. Tradizionale, sì, ma in certi momenti irresistibile per come penetra la filosofia troisiana.
CALL MY AGENT
Il problema era noto. Una serie di questo tipo può innalzarsi dall’inside joke solo se dimostra che il cinema vive in un habitat dove lo star system e il dinamismo del pubblico sono evidenti. Visto che da noi così non è, la serie deve per forza adattare l’originale francese sfruttando i pochi divi riconoscibili, da Accorsi a Favino, da Cortellesi a Sorrentino, che stanno al gioco con innegabile simpatia ma con risultati scolastici, quando non sempliciotti. Possiamo dire che comunque si cade in piedi, viste le premesse? Forse sì, ma è come quando a Masterchef gli aspiranti cuochi cercano di replicare il piatto del grande ospite: bravini e basta.