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Tag: Biografilm 2020

CRONACHE DAL BIOGRAFILM – PARTE III

Cominciato il 5 giugno 2020, il Biografilm si svolge interamente online su Mymovies, gratis. Ecco la seconda puntata delle impressioni critiche su alcuni dei film (qui le altre puntate)

I Walk di Jørgen Leth. Quando il documentarista decide di voltare la camera verso se stesso può succedere di tutto, dall’estasi alla fesseria. Leth è uno che sa il fatto suo, e che ha spesso provocato il linguaggio cinematografico in passato. Affaticato nel passo, colpito da catastrofi naturali e personali, viaggia dentro la sua vecchiaia e spiega che cosa significa perdere le forze fisiche mentre il cervello è lo stesso di prima. Tra esotismo quasi coloniale e ironia stralunata, finisce con l’erigere (letteralmente) una tomba nella foresta a se stesso. Piuttosto inclassificabile.

Because of My Body di Francesco Cannavà. Di love giver avevamo solo sentito parlare nei film di finzione. Ma di gente che aiuta a ritrovare la sessualità le persone affette da handicap ne esiste davvero. In questa cronaca di rapporto tra uno specialista e una ragazza con gravi problemi alle gambe c’è tutta la difficoltà di una pratica che chiede al tempo stesso educazione erotica e distanza col paziente. Quasi impossibile, e infatti la protagonista del doc sviluppa sentimenti forti, che sfiorano il cinema sentimentale. Il regista tiene a bada la situazione, osservando i due punti di vista e rispettando il corpo della giovane donna. Fa come il terapeuta: ne spalanca l’intimità ma ne protegge la dignità.

Sing Me a Song di Thomas Balmès. Dopo Happiness, lo stesso regista parigino torna al protagonista del primo film, dieci anni dopo, sempre seguendo le vicende del Bhutan e del buddismo tibetano. Il tema, ben chiaro, è il rapporto tra la spiritualità e la tecnologia. Se vedere gli aspiranti monaci alle prese con gli smartphone fa una certa impressione, alla lunga il confronto serrato tra il personaggio e il ruolo della modernità rischia di avere solamente l’arma dell’accostamento come mezzo narrativo ed estetico. Impaginato come un film d’autore, non si farà ricordare a lungo.

King of the Cruise di Sphie Dros. il personaggio principale del documentario sarebbe uno strano sedicente barone, che – solo, anziano e terribilmente sovrappeso – se ne va in giro per le navi da crociera per trovare un po’ di compagnia e raccontare mirabolanti storie che sarebbero piaciute al grande falsario Orson Welles. Ma in verità la protagonista è la crociera, col problema che David Foster Wallace e molti film ed episodi di serie TV recenti hanno ormai narrato il kitsch umano di queste comunità in viaggio. E diventa davvero difficile sviluppare i sentimenti di ironica pietà che la regista si sforza di suscitare.

It Takes a Family di Susanne Kovács. Il nostro film preferito del festival, insieme al vincitore (che avevamo facilmente pronosticato), Walchensee Forever. Anche qui una tormentata storia di famiglia ricostruita dalla più giovane, ma se possibile ancora più dolorosa. Per riassumere: due nonni sopravvissuti ai campi di sterminio, un padre brutalizzato dallo stesso nonno vittima dei nazisti, una madre figlia di un soldato nazista (e dunque in dissidio con i suoceri), e in generale una isterica reticenza dei parenti a confessarsi davanti alla camera. Un film a suo modo eccezionale, già pronto per essere oggetto di trauma studies storici e psicanalitici, gestito con una volontà impressionante ma senza rinunciare alla fragilità di chi capisce e perdona le ferite inferte dal male assoluto.

Abbas by Abbas Kamy Pakdel. Come ho detto anche altrove, nel doc mi piacciono i progetti chiari e dichiarati. Il regista vuole raccontare la storia di un grande fotografo di guerra (e non solo). Lo trova malato e al termine della sua vita. Nessuno ne fa una questione patetica. Il fotografo accetta di raccontarsi, e soprattutto di strutturare in dieci categorie la sua opera, in una sorta di catalogo di metacritica. Curatore di sé stesso, Abbas spiega la sua estetica e la sua pratica, si congeda gestendo l’ultimo ciak, e poco dopo la fine delle riprese muore. Tutto qui (si fa per dire, ovviamente), con grande arricchimento dello spettatore.

Gli anni che cantano di Filippo Vendemmiati. Che roba era il Canzoniere delle Lame? Gli emiliani se lo ricordano: un gruppo di cultori ed esecutori della canzone politica e resistenziale che, tra gli anni ’60 e il 1980, ha tenuto centinaia di concerti. Qui, insieme a commoventi immagini di repertorio, li ritroviamo imbiancati, sopra un pulmino, a raccontare un’epoca finita per loro stessa scelta (inutile fare la “messa rossa” viene giustamente detto da chi ha deciso di togliere la spina). Il resto viene da sé, basta avere l’affetto che Vendemmiati possiede dietro la macchina da presa.

CRONACHE DAL BIOGRAFILM – PARTE II

Cominciato il 5 giugno 2020, il Biografilm si svolge interamente online su Mymovies, gratis. Ecco la seconda puntata delle impressioni critiche su alcuni dei film (qui invece la prima puntata)

Irradiated (Irradiés) di Rithy Panh. Tre schermi, a volte allineati in simultanea, a volte separati. Tutte le atrocità del Novecento, che hanno affiancato la storia del cinema, in novanta minuti, senza sosta, senza dimenticare alcun totalitarismo, senza sollevare l’obiettivo dallo sterminio – salvo forse alla fine. Un film che dialoga con gli ultimi Godard, anche se non si può nascondere qualche dubbio sul senso dell’operazione di Panh, ai limiti del sadismo. L’orrore non è naturalmente ossessione piacevole, ma l’ipnosi è dietro l’angolo, e i corpi ammassati, torturati, senza vita e senza più forma fanno più male del discorso delle “immagini malgrado tutto”.

Barzakh di Alejandro Salgado. Il documentario contemporaneo lavora molto sui luoghi di passaggio, i confini strani e fantasmatici. Qui c’è Melilla, città autonoma spagnola in punta di Marocco, dove stazionano gli aspiranti migranti. Ciò che distingue dagli altri questo doc è che Salgado riprende tutto di notte, trasforma le rocce e le grotte sul mare in un castello gotico, e lascia le persone illuminate da fioche torce a parlare e parlarsi, in un clima estetico e psicologico a volte lacerante. Sospetti di estetismo? Forse, ma lo preferiamo a certo cinema del reale.

Love Child di Eva Mulvad. L’ultima volta dicevamo dei sotto-generi nel doc, soprattutto nell’epoca post-primavere arabe. Vicino al “filone siriano” (di grande importanza per la ridefinizione del visibile negli ultimi anni), questo probabile candidato alla vittoria finale riprende una famiglia di iraniani che fugge da una possibile esecuzione in patria. Ci sono un bambino, una mamma e un papà che però si era finto lo zio, perché non è il marito di Leila. La fuga si blocca in Turchia, e anche questa è una storia di congelamento e frustrazione. Meglio della lapidazione, certo, ma un rifugiato intanto ha perduto la patria. Bisogna accettare che i doc possano essere mélo (qui figli illegittimi, segreti enormi a fin di bene, suspense, pianti a dirotto, separazioni), purché non cinici. La regista Mulvad, testimone incessante della vita dei tre, non lo è.

Being Eriko di Jannik Splidsboel. Storia di Eriko Nakamura, ex fiore precoce del pianismo mondiale, poi artista e performer (un po’) estrema per liberarsi dalla ferocia dei concorsi e dei concerti. Una corte dei miracoli di artisti e figure sensibili accompagnano la continua ridefinizione dell’arte di Eriko. Di idee di documentario ce ne sono pochine, e purtroppo la limitatezza dei confronti dialogici tra i protagonisti si fa via via più irritante. Però non è che ne si può dire particolarmente male. Ed Eriko ha una tensione fisica e mentale che basta a sostenere parecchi muri pericolanti del film.

La pallina sulla conca di Francesca Iandiorio. Film-diploma conclusivo del CSC di Palermo. Un altro film sui problemi di corpo e di cibo (particolarmente presenti al Biografilm 2020). A differenza di altri, la Iandiorio trova un “partito preso” della messa in scena. Riprende tutto ma non se stessa. Parla di sé ma si occulta. Si rifrange nelle immagini altrui – il compagno, la madre… – e cerca di capire il proprio rapporto con l’atto del mangiare a partire dalla famiglia, dalle tradizioni, dalle relazioni (intuendo su se stessa un tema fondamentale del cibo, persino della cultura del cibo). Minimalista e metonimico, centrato, con un finale toccante.

#unfit: The Psychology of Donald J. Trump di Dan Partland. La teoria, sostenuta da un gruppo di psicologi americani, è che Trump abbia un serio disturbo narcisistico della personalità e dunque vada deposto. A partire da questo divertente spunto, si comincia a esaminare Trump da un punto di vista clinico, osservando una gran mole di interviste, tweet, momenti della carriera da imprenditore, per giungere sempre alla stessa conclusione: Trump è pazzo. Poco più di un documentario-birra da bersi dopo cena tra democratici, peccato per la seconda parte dove le analisi storiche (il confronto Trump/Mussolini) sono campate per aria e fanno sbandare questo film post-Michael Moore.

La casa dell’amore di Luca Ferri. Conclusione della trilogia dell’appartamento di Luca Ferri, per fortuna un regista che è sempre meno un segreto ben custodito del cinema sperimentale italiano. Massima ammirazione per questi due anni passati con la trans Bianca, che intrattiene clienti uno più bislacco e malinconico dell’altro. La vita di Bianca è vera, le scene con i clienti invece ricostruite con amici e attori. Avevamo apprezzato Dulcinea e adorato Pierino (forse il doc più tradizionale? Ma mica tanto). Qui si fa più fatica, a dire la verità, specialmente per le liturgie teatrali e vagamente sadiane degli incontri finzionali. Lodevole invece lo sguardo su Bianca: una affettuosa distanza, al tempo stesso impudica e legittima, seria, che accalora il tutto.

CRONACHE DAL BIOGRAFILM – PARTE I

Cominciato il 5 giugno 2020, il Biografilm si svolge interamente online su Mymovies, gratis. Mentre la comunità di appassionati e cinefili si sta interrogando su questa modalità (trovando ovvie nostalgie dell’esperienza live ma anche la sensazione di poter accedere a una programmazione altrimenti esclusa per chi non si si sarebbe trovato nelle sedi delle manifestazioni…bisognerà riparlarne), noi inauguriamo la nuova sezione “Festival” del sito con brevi commenti da alcuni film. Ora – e in futuro – l’intervento sarà rapido e concettuale, non recensioni rotonde ma riflessioni a spigoli, senza pretese di esaustività.

Kubrick by Kubrick di Gregory Monro. Idea semplice ma ottima. Come più spesso bisognerebbe fare. Si prendono le registrazioni audio della famosa intervista di Michel Ciment a Stanley Kubrick, si affiancano immagini (di qualità) dai film del maestro, si intrecciano le rare auto-diagnosi del regista ai film e alla loro potenza comunicativa, si aggiunge qualche intervista rigorosamente di repertorio, e ci si limita a un’ora e un quarto. In un sottogenere (i doc sui grandi cineasti) pieno di robaccia, una boccata d’aria pulita.

Ecstasy di Moara Passoni. Tipico caso di sensazione sgradevole verso se stessi. Come puoi sottrarti a un film così sentito, sincero, quasi scorticato, sulla propria anoressia da parte di un’autrice chiaramente intelligente? Per di più non c’è nulla di didascalico e c’è persino una snervata ironia che punge in sottofondo. Ma spesso il doc corporeo contemporaneo fallisce proprio dove il dente duole: il corpo. Non ci sono gli strumenti stilistici (o politici, viste le recensioni plaudenti) per questa storia. Il corpo, anche se è il proprio, chiede il contrario del kitsch autobiografico. Purtroppo.

Walchensee Forever di Janna Ji Wonders. Chi segue il Biografilm (o altri festival internazionali centrati sul doc e sulle storie di vita) di questi film ne ha visti a decine. Una storia di ricostruzione intima famigliare, attraverso un ampio archivio di home movies e fotografie, diari e lettere, ricostruita dalla più giovane di alcune donne tedesche spalmate su tre generazioni. Ma anche se ne abbiamo visti a decine, questo premiato doc ha il merito di confermare la vitalità del sotto-genere e al contempo mostrare nuovamente il miracolo del transfert emotivo: nessuna storia famigliare è uguale a un’altra. Come commuovesi senza guardare dallo spioncino? Affidandosi a una brava regista, che sa come montare i materiali e come far marciare una storia.

Faith di Valentina Pedicini. Le piccole comunità di persone completamente fuori di testa sono sempre interessanti, specie se una regista in gamba si infila nel gruppo e resta il tempo necessario a conquistare fiducia e registrare. Questi sono i Guerrieri della Luce, un po’ cristiani rinati, un po’ monaci buddisti, un po’ combattenti di arti marziali con aria da raduno techno neonazi, un po’ sadomasochisti nascosti nella provincia marchigiana. Osservazione anatomica, mai del tutto entomologica, oggettiva ma comprensiva. Il bianco e nero assai elogiato forse “stampa” sul muro il progetto cinematografico, lasciandolo in bella vista ma senza concedergli la possibilità di un incanto o di un raccapriccio.

In un futuro aprile di Francesco Costabile e Federico Savonitto. Mi piacciono le idee nitide. Certo, quando uno oggi legge che c’è un nuovo doc su Pasolini, mette mano alla pistola. E invece si fa bene a dubitare del proprio pregiudizio. I registi ergono un gigantesco protagonista, Nico Naldini, cugino di PPP e testimone della sua infanzia a Casarsa. Bastano volto e voce. Lui che racconta e commenta, illuminato senza le luci smarmellate del documentario scemo. Il resto ce lo mette un gran lavoro d’archivio, dove ci sono anche i soliti grandi di Home Movies, e il gioco è fatto. Casarsa rivive, e crediamo a quel che ci raccontano. Che non è dire poco.