Come di consueto la rubrica “In poche righe” affronta alcuni film e serie TV attraverso rapidi lampi critico-interpretativi.
HIT MAN
Clamoroso trattato sull’identità contemporanea travestito da giallo-rosa. Le botole di Richard Linklater si aprono a ogni svolta fisiognomica del protagonista, fino a farci cascare dentro anche molti avveduti cinefili. Strepitoso come si parli di filosofia nei dialoghi, ma poi si scarti in maniera evidente il bric-à-brac continentale e diventare infine un vero saggio di riflessione analitica. Vertiginoso, divertentissimo, sexy, il film vale anche come opzione meta-cinematografica, ma quel che importa è la domanda esistenziale profonda: chi sei e a quale costo sei disposto a cambiare? Occhio al finale col sacchetto in testa: si sorride ma sarebbe meglio rimanere inorriditi, a dimostrazione della splendida ambiguità dei personaggi.
A QUIET PLACE – GIORNO 1
Sorprendente sequel ben scritto e diretto da Michael Sarnoski, che per una buona mezz’ora sembra nascondersi dentro il ben noto meccanismo fanta-horror (attacchi di alieni animaleschi e silenzio come unica salvezza), e poi vira verso una malinconica ballata sulla morte della vecchia New York e l’addio alla comunità. E sebbene si debba sospendere l’incredulità molto ma molto intensamente (l’immortale gattino che sopravvive sott’acqua), non è questo che conta. Conta il mood, espressamente jazzy. Strepitosa (la scelta di) Lupita Nyong’o, che dopo Us amplia il ventaglio della sua “alterità horror”.
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Restaurato e immediatamente re-distribuito in prima visione, il lavoro meno “personale” di Marco Bellocchio (scritto con Goffredo Fofi a partire da una bozza di Sergio Donati) è tuttora un signor film: è vero che a impressionare di più è il clima d piombo che si respira dalle strade, dalle piazze, dai volti, ma sarebbe poco generoso buttare via l’indagine sul giornalismo bieco e schifoso della destra borghese. C’è aria di Petri, ma non è certo un difetto. Poi ovviamente è anche un tassello di Gian Maria Volonté come autore, poiché modella il suo personaggio dentro una galleria di rara coerenza e in un contesto di impegno civile oggi impossibile persino da immaginare.
FEDERER – GLI ULTIMI 12 GIORNI/JIM HENSON – IDEA MAN
Mettiamo insieme due documentari da piattaforma. Entrambi mediocri. Nel primo caso dobbiamo decidere quali occhiali indossare: da studioso di trasformazioni dei media, è interessante questa produzione sul passaggio (piccola morte?) del campione dalla carriera al post-carriera; dal punto di vista artistico, invece, il risultato è di rara pigrizia, fallendo persino l’obiettivo minimo del bromance tra Roger e Rafa, assai più riuscito nella realtà che sullo schermo. Nel caso del doc di Ron Howard invece l’interessantissimo materiale di partenza funziona nella ricostruzione della carriera di Henson e del sistema televisivo e cinematografico nel quale emerge, ma poi si (dis)perde nel biografismo più “pettinato” con interviste di atroce bruttezza.
SUGAR
Beh, se siete riusciti a non sapere nulla della serie, la sorpresa che si svela a un certo punto entra negli annali della serialità contemporanea (se qualcuno afferma di averlo immaginato in anticipo deve portare le prove scritte). Difficile parlarne senza fare spoiler. Diciamo allora che l’impianto neo-noir, sebbene appesantito dalle fighetterie in regia di Fernando Meirelles, fa perno sul personaggio principale e su un Colin Farrell in grado di esprimere alle perfezione le vulnerabilità del protagonista. La quota cinefila, espressa attraverso segmenti brevissimi di vecchi classici in B/N, per fortuna non irrita e – sempre alla luce del colpo di scena – diventa davvero curiosa per come viene giocata rispetto all’immaginario del detective.