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FESTIVAL DEI POPOLI 2020

Anche lo storico appuntamento fiorentino, diretto da Alessandro Stellino e curato da un comitato di selezione di alta qualità, si è spostato online e il sottoscritto ne ha spudoratamente approfittato (come in molti altri casi di quest’anno) per poter vedere e analizzare una manifestazione che per motivi di lavoro negli ultimi anni era stato quasi impossibile visitare.

Posso subito affermare che la selezione, almeno per i campionamenti e i carotaggi che mi sono potuto permettere (il festival va fino al 22 novembre, scontando una problematica sovrapposizione con TFF), si è rivelata di ottimo valore. Anche le sezioni si sono dimostrate al tempo stesso ben identificate e duttili. Pensiamo a “Let the Music Play”, dedicata al rapporto tra musica, cultura e società, dove si sono visti film ottimi come Sisters with Transistors di Lisa Rovner, appassionato studio pieno di documenti visivi e sonori dedicato alle pioniere della scena elettronica (voce over di Laurie Anderson) o Patti in Florence di Edoardo Zucchetti con Patti Smith e il suo rapporto con Firenze, artistico, affettivo e creativo. Ma di musica parla anche uno dei migliori titoli in assoluto di questa edizione, Medium del grande scrittore e regista argentino Edgardo Cozarinsky, che pedina e racconta l’amica pianista 93enne Margherita Fernández, raccontando al tempo stesso un’amicizia, una vocazione artistica, una storia politica e un partito preso di come si rappresenta (in modo fisso e senza stacchi) una performance classica.

E c’è musica anche in L’armée rouge, cinema del reale dedicato alla scena musicale ivoriana nel mondo dei migranti di Napoli (cinema del reale “allo stato brado” – come ha scritto uno spettatore a commento – è anche Aylesbury Estate di Carlotta Berti, dove però stranamente la grama storia di alcuni inquilini di co-housing popolari di Londra e dell’impari lotta contro gli speculatori del mattone appare troppo legata alle modalità standard di scrittura e messinscena del doc sociale contemporaneo).

Ovviamente il cinema presentato ai Popoli vale come osservatorio socio-etnologico di un mondo sempre più complesso e sempre più emarginato, con una divisione netta tra storie di persone raminghe loro malgrado e storie di persone che cercano di cambiare vita o di fare scelte alternative (le meno interessanti, sinceramente). Più drammatica la situazione quando i personaggi dei film non ci sono più, come l’umanissimo Massimiliano di Il libro di Giona (di Zlatolin Donchev): un uomo che vive in un’automobile ferma a ciglio delle strade, quasi aspettando la fine, che poi arriva prima di poter vedere il (forte) film su di lui finito.

La proposta è amplissima e i titoli esplorano terre anche molto lontane tra di loro. Ben poco unisce Look than Below dello sperimentalissimo Ben Rivers, sempre più antropologo lisergico e cineasta delle forme, e film come L’occhio di vetro di Duccio Chiarini, magari un po’ semplice nel racconto ma forse molto utile per capire i rimossi – talvolta laceranti, specie in ambito famigliare – del fascismo dei repubblichini in Italia.

Oltre al cinema del reale, ci sono naturalmente altri modelli, che talvolta funzionano più adesso che vent’anni fa, come quello di Wiseman che sembrerebbe guidare le scelte di Laura Lamanda in L’ile des objets dove però sembra quasi che la regista abbia avuto una grande idea (guardare al banco degli oggetti smarriti come a una istituzione quasi narrativa che raccoglie le sbadataggini e le perdite di un’intera umanità) ma poi non si sia ritrovata un vero sviluppo in mano. E lo stesso vale per Bulletproof di Todd Chandler, che racconta le strategie difensive dei licei americani per difendersi da eventuali attacchi da parte di alunni armati: uno spaccato raggelante e sorprendente, qua e là ripetitivo.

Ovviamente c’è anche spazio per il cinema, per esempio con il ritorno di Tigrero -A Film that Was Never Made di Mika Kaurismaki, 1994. Un film su un film mai realizzato (da Sam Fuller), un doppio viaggio per location inutilizzate, un discorso memoriale su lacerti cinematografici girati e mai conclusi, e sulla memoria di una comunità semi-civilizzata quarant’anni dopo il primo progetto.