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Il personaggio opaco: “FRANCE”

Quasi nemmeno notato dal pubblico italiano, se non con qualche piccola nicchia cinefila d’essai, France è uno dei film dell’anno. Bruno Dumont ha avuto il merito di mettere in scena la crisi dell’estetica contemporanea nell’epoca dei media digitali, lavorando in una zona sottilissima tra verosimiglianza, mise en abyme e dramma borghese sperimentale.

Come facciamo solitamente nella rubrica dedicata alle singole sequenze, proviamo a capire se una di queste possa essere considerata parte-per-il-tutto, talmente indicativa da dirci qualcosa dell’intera operazione. Nella terza parte del film (attenzione agli spoiler), France torna in televisione dopo aver attraversato un periodo di crisi. Come ha sempre fatto, si reca in una zona di guerra e porta la troupe fin dentro il conflitto – confidando nella sua fortuna, nel casco e nel giubbotto anti-proiettile.

France rischia, in guerra? In parte sì, perché le fischiano le pallottole intorno. In parte no, perché appena finito il servizio si riposa nei resort, non troppo lontani dalla battaglia – di cui ascoltiamo i botti – ma non troppo vicino a un pericolo reale. Eppure, quasi attraversata da scosse di euforia e di impulsività (sintomi depressivi, in verità), troviamo France che prova l’inquadratura e dà vita a un assurdo balletto mentre intorno a lei esplosioni, spari, nuvole di fumo e gente in fuga sembrano inseguiti dalla morte.

Perché France fa le smorfie, ridacchia, saltella e gesticola in modo grottesco? Che cosa c’entra con la France in crisi di poco prima, con la sua malinconia, i suoi pianti, le sue insoddisfazioni e i suoi occhi gonfi? Perché sta agendo in modo sconsiderato? Poco dopo, la giornalista riprende il suo atteggiamento professionale e spavaldo, e comincia a girare quella specie di guerrilla television da canale generalista – contraddizione in termini – grazie alla quale conquista i suoi telespettatori.

Dumont, attraverso quella sequenza, ci spiega che non abbiamo capito nulla. O che potremmo non aver capito nulla. In un film nel quale, per quanto France pianga in primo piano e venga attraversata da emozioni insopprimibili, lo spettatore non può piangere né identificarsi, anche un possibile arco di trasformazione del personaggio di viene negato. France era dunque una stronza fin dall’inizio e nulla la può davvero trasformare? Oppure ci troviamo di fronte a un carattere liminare, con tratti bipolari, segnato da euforie e disforie continue, le cui traversie in fondo contano meno della mediatizzazione estrema in cui ella vive ormai come in una bolla?

France è un personaggio opaco, che chiama lo spettatore a decifrare l’indecifrabile; un personaggio che mette in scena, in modo sempre raddoppiato e recitante, una crisi personale che la macchina da presa non può davvero penetrare né chiarire, nell’impero del falso mediale dove ogni aspetto esistenziale è filosoficamente contraddittorio per l’habitat in cui si trova. France è sé stessa e sempre altro da sé (come la nazione che rappresenta per nomen, di cui osserviamo tutto: colonialismo, cronaca nera, politica, protesta, informazione, guerra, migrazione).

Curiosamente, nell’epoca in cui il concetto di autenticità (ovviamente anch’essa come costrutto e processo comunicativo) è decisivo per le celebrità, France è al tempo stesso esposta e impenetrabile, sentimentale e anempatica, caritatevole e cinica, sostanzialmente vera e falsa in ogni momento della sua vita – come non sapremo mai se nella clinica svizzera dove si rifugia ci sia davvero anche Angela Merkel: gliela indica una signora allegra fino all’isteria, deliziata di trovarsi tra i VIP in quello che sembra un albergo di lusso, fino a che arriva una minacciosa infermiera che la porta via con modi spicci: una paziente mitomane o una vittima che dice la verità?

Tutto France è pieno di botole, di gag tese e stranianti, di avvenimenti non annunciati o di ellissi stridenti, di personaggi secondari di cui è complicato comprendere la stabilità emotiva e mentale, di rotture della continuità, di linguaggi e di schermi che si installano l’uno nell’altro, di disarmonie che i media – ormai funzioni psichiche a tutti gli effetti – occultano ma moltiplicano.

E forse alla fine in questo mondo isterico e poco leggibile, eppure piatto o uniforme, rischiamo di riconoscerci.