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“LA LETTERA ACCUSATRICE” E LA SMALL TOWN AMERICANA

Proseguiamo nell’esplorazione delle pieghe più nascoste del cinema classico, rielaborando alcuni articoli del passato (in questo caso per una vecchia collana di DVD). Oggi parliamo di La lettera accusatrice di Tay Garnett, in originale Cause for Alarm. Questo film utilizza quello che gli esperti chiamano “meccanismo di strangolamento”. Significa che il film (per lo più di genere thriller o avventuroso) comincia in una situazione apparentemente serena e peggiora via via mettendo il protagonista in un pericolo crescente. Tutto volge al peggio, fino a che – metaforicamente – spettatore e personaggio si sentono soffocare, perché ogni via d’uscita sembra preclusa. Funzionano così alcune delle migliori sceneggiature americane, e La lettera accusatrice non fa eccezione.

Girata in pochi giorni e pensata probabilmente poco più che come “b-movie”, la pellicola del 1951 si svolge quasi in tempo reale e anticipa i meccanismi di suspense utilizzati, per esempio, da un serial come 24. La protagonista, infatti, deve correre contro il tempo per fermare la missiva del marito, malato di nervi, destinata al procuratore distrettuale, nella quale la donna verrebbe ingiustamente accusata della sua morte. Su questa premessa, si snoda il racconto. La donna, impreparata a fronteggiare la crisi, commette un errore dietro l’altro e cercando di tenere celata la morte del coniuge, si comporta in maniera inconsueta con tutti coloro che la circondano e accumula omissioni e piccole bugie destinate a ritorcersi contro di lei.

Il film è girato in spazi claustrofobici: l’appartamento dove la coppia abita, il vialetto di casa, il quartiere. Al massimo ci si spinge alla fine della strada principale: è un altro accorgimento per produrre sentimenti di ansia e incertezza nello spettatore. Importante anche l’architettura interna della casa. Il pianoterra sembra appartenere all’utopia di una famiglia felice, il piano di sopra invece è il luogo della nevrosi e dell’instabilità. Quando il marito muore, la donna deve impedire a chiunque di salire le scale. La stanza della “follia” finisce fuori campo, diventa una torre inaccessibile, un confine da non oltrepassare a nessun costo.

Al di là delle evidenti caratteristiche che rendono il thriller avvincente, però, si fa strada una non banale riflessione sociale. A ben pensarci, infatti, quando la protagonista entra in crisi, l’intera, piccola comunità che la circonda diventa ostile. La vicina di casa spia e spettegola, il postino si rifiuta di restituire la lettera intestardendosi sui regolamenti cittadini, il bambino che scorrazza in bicicletta sul vialetto di casa rischia di farsi a bella posta investire, la zia del marito s’impiccia e si intromette. Il delicato quadretto che per solito siamo abituati a trovare nel cinema americano degli anni Cinquanta finisce rapidamente in pezzi. Esso diventa intollerabile per la protagonista e pericoloso per la sua innocenza. Solo il coraggio e la freddezza della donna riescono a farle affrontare una situazione che, da ordinaria qual è, si è trasformata in kafkiana.

L’aggettivo può essere usato senza remore. In fondo, il meccanismo che rischia di schiacciare la donna ha qualcosa di assurdo. Il film, del resto, deve probabilmente molta della sua energia alla lezione del noir (le cui storie criminali saccheggiavano senza ritegno Freud e Kafka) e alla nascente sfiducia nella provincia americana. Non è un caso che in quegli stessi anni – dal 1951 in poi – Philip K. Dick sviluppi i suoi angoscianti racconti brevi ambientandoli nelle piccole città statunitensi, e che l’horror investa presto le stesse, apparentemente calme, cittadine. Forse, La lettera accusatrice merita di non essere liquidato come un divertissement fine a se stesso, ma di ottenere una valutazione di più ampio respiro che ne saggi l’importanza dentro un intero contesto culturale e storico.

Che cosa ci vuole dire il film? Forse questa perfetta cittadina americana non è così raccomandabile. Forse gli abitanti apparentemente sorridenti e pacifici sanno essere molto velenosi, quando vogliono. Forse lo scandalo sociale di una moglie che può sopravvivere senza il marito è la vera posta in gioco, il vero motivo per il quale nessuno vuole aiutare la donna.  O più semplicemente, La lettera accusatrice mette in guardia da chi consideriamo affidabile. In fondo, basta un po’ di malsana curiosità, di mediocre invidia per mettere in pericolo l’innocenza di una persona. Ecco perché il film, sotto le spoglie di un thriller piacevole e pieno di tensione, merita un’attenzione particolare.

Vale la pena aggiungere qualche annotazione sulla figura del marito, interpretato dall’ottimo Barry Sullivan. Il cinema americano ha avuto sempre una qualche ritrosia a rappresentare le malattie mentali, almeno fino all’epoca contemporanea dove il cosiddetto “handicap movie” ne ha mostrate numerose. Il reduce di guerra di questo film appare psicologicamente scosso e fisicamente debole. E’ un uomo chiuso in se stesso, ormai incapace di assumersi il ruolo di capofamiglia che gli spetterebbe. E’ ossessionato dall’idea che la moglie sia innamorata dell’amico medico. Passa tutto il giorno a rimuginare sul proprio sospetto e arriva persino a convincersi che i due tramino la sua morte. Qualcuno potrebbe dire che l’uomo ha visto troppi noir. Effettivamente, la sua paranoia potrebbe essere la perfetta trama di un altro film, di quel genere che abbiamo poco fa citato. E’ come se La lettera accusatrice contenesse due “mondi possibili” narrativi: quello del thriller – che il film sceglie di sviluppare – e quello del noir – che appartiene solo alla mente instabile del marito.

Il film si avvale della regia sorvegliata e rapida di Tay Garnett, regista amato dai cinefili per la sua abilità nell’adattarsi ai vari generi cinematografici e grazie alle indubbie qualità di messa in scena. Film come La taverna dei sette peccati (1940), Bataan (1941), Il postino suona sempre due volte (1946) valgono come altrettanti biglietti da visita. Sapiente nel destreggiarsi tra spazi stretti e luoghi asfittici, Garnett mostra di saper dosare la tensione e far crescere lentamente la suspense. In alcuni casi, attinge persino alla tradizione espressionista. Per due volte, ombre e silhouette si stagliano dietro la porta. Si tratta di un espediente di inquadratura e di luministica che rappresenta le angosce della protagonista. Non è cioè una visione soggettiva o un sogno a raccontarci della nevrosi incombente, bensì un effetto visivo che appartiene all’ambiente circostante. E’ una sorta di discorso libero indiretto del cinema, o – come lo chiamava Pasolini – una “soggettiva libera indiretta”: quello che vediamo è in verità filtrato e ingigantito dalla psicologia della donna.

Tuttavia, il suo film avrebbe perso di efficacia senza la protagonista, Loretta Young, parte integrante della vicenda e perfetta interprete per la parte di una donna comune alle prese con una emergenza imprevista. Attiva fin dagli anni Trenta – dopo una “gavetta” nel cinema muto -, la Young ha interpretato numerosi personaggi, riuscendo ad essere contemporaneamente materna e sensuale, spiritosa e affidabile. Ha girato commedie (La gelosia non è di moda, 1937, Mia moglie cerca marito, 1937), drammi (Le due suore, 1949), film d’avventura e in costume, finendo anche alla corte del grande Orson Welles (Lo straniero, 1946). Si tratta di un volto molto particolare, dagli occhi chiari e profondi e dalle labbra sensuali. Questa compresenza di elementi rassicuranti e particolari seducenti ne hanno fatto un’attrice versatile, forse troppo inclassificabile per diventare una diva a tutti gli effetti, ma capace di vincere un Oscar nel 1947 per La moglie celebre di H.C. Potter. Gli appassionati, comunque, la ricordano con affetto. Volle girare La lettera accusatrice come uno dei suoi ultimi film, prima di ritirarsi dal cinema e dedicarsi alla televisione e a opere di carità.